A 12 anni era già un divo grazie a Harry Potter. Ma a Grazia Daniel Radcliffe racconta che il suo vero incantesimo è stato sopravvivere alla celebrità. E ora che torna al cinema nei panni del cattivo ha capito che, per essere felici, non serve essere famosi

Harry Potter è morto. Non ci sono più dubbi. A ucciderlo non è stato il rivale Lord Voldemort, ma un giovane attore di 26 anni, ambizioso, eclettico, ormai deciso ad accettare soltanto parti difficili e insolite. Da quando ha smesso i panni del maghetto buonista, Daniel Radcliffe si è trasformato in tutti i sensi: nell’aspetto, nei modi, nelle scelte professionali, perfino nella vita sentimentale (è fidanzato stabilmente dal 2012 con l’attrice Erin Darke). Basta fare il ragazzino, sembra dire al mondo, adesso sono un uomo, uno che sa quello che vuole. Al punto che, nel film I maghi del crimine 2 con Morgan Freeman e Jesse Eisenberg (nei cinema dall’8 giugno), finalmente si toglie la soddisfazione di fare la parte del cattivo.
Abbandonato dunque il look leccato dell’era Potter, oggi Radcliffe mi accoglie al Four Seasons Hotel di Beverly Hills in perfetto stile “millennial”: barba lunga, maglietta grigia finto-povero, scarpe da tennis rétro, tazza di caffè in pugno. Me ne offre una mentre mi stringe la mano con piglio deciso: io dico no grazie, ne ho appena presi due mentre l’aspettavo, se ne bevo un altro esplodo. E lui, ridendo: «Non lo dica a me. Il segreto è la tempistica: devi berne abbastanza per arrivare alla fine della mattinata, poi smettere in tempo, così per l’ora di pranzo puoi farti un sonnellino, e poi ricominciare. È il mio piano per oggi».
Si siede e, se non fossimo in un albergo a cinque stelle con addetto stampa-cerbero seduto alle spalle, penserei di essere a un colloquio di lavoro con uno dei tanti ragazzi armati di computer portatile che affollano i caffè di tendenza dell’East Village a New York.
Allora, questo nuovo personaggio: è molto diverso da Harry il maghetto.
«Oh, sì. Walter è un giovane imprenditore, una sorta di bambino prodigio. È un tipo ossessivo, fissato con l’idea di essere sempre all’avanguardia in campo tecnologico. Ha anche un bisogno spasmodico di potere. Quando sente parlare dei Quattro Cavalieri, i maghi protagonisti della storia, li vede come una minaccia, e così decide di cooptarli, di farli lavorare per lui. All’inizio del film finge di essere morto per avere maggiore libertà e fare quello che vuole. Nel prepararmi alla parte, ho pensato: ma come sarebbe davvero la vita dopo aver finto di essere morti, quando poi ci si ritrova da soli, con le guardie di sicurezza e basta? Sarebbe molto noiosa, solitaria e probabilmente porterebbe a un grande senso di insicurezza. Secondo me, questo spiega in fondo tutto il personaggio. Walter è il tipo che a scuola non ha mai fatto parte del gruppo “fighetto”, è il ragazzo che paga gli amici per venire alla sua festa di compleanno».
Come si è preparato al suo primo ruolo da cattivo?.
«Quando reciti la parte dell’antagonista, devi assicurarti di trovare delle sfumature e dare una logica al comportamento: non puoi semplicemente fare il pazzo. Per me il divertimento più grande nel prepararmi al ruolo di Walter è stato chiedermi: che cosa lo ha portato a diventare un essere umano così tremendo? E sono arrivato alla conclusione che era un uomo solo, insicuro e anche, come molti maschi, tormentato dal rapporto con il padre e dal desiderio di avere la sua approvazione».
Da quando ha smesso i panni del super buono Harry Potter, lei sembra interpretare soltanto personaggi bizzarri: dal giovane ossessionato dai cavalli in Equus qualche anno fa al cadavere petomane nel surreale Swiss Army Man di quest’anno, passando per il poeta beat Allen Ginsberg di Giovani ribelli nel 2013. Come mai?
«In realtà, scelgo di fare ciò che mi rende felice, ruoli che penso possano soddisfarmi dal punto di vista creativo: difficili, interessanti, grazie ai quali mi sento realizzato nella mia professione. Lo so che sembra semplicistico, ma il fatto è che le garanzie di successo sono poche. Come attore, non hai modo di controllare la gestione del film una volta che hai finito di recitare, non hai potere decisionale sul risultato finale. Le uniche cose che davvero puoi controllare sono i personaggi che scegli e i colleghi o i registi con cui lavori».
Oltre che recitare, so che le piace scrivere poesie.
«Sì, anche se sono anni che non lo faccio. Anzi, aspetti, no: proprio recentemente ne ho scritta una. Però adesso mi succede più raramente che da ragazzino. Tra i 16 e i 19 anni, invece, ne avrò composte almeno 150 e, di queste, forse una decina saranno state davvero buone. Adoro scrivere. Probabilmente questo mio amore nasce dal fatto che sono cresciuto circondato da libri, copioni, commedie. Mio padre era un agente per conto di sceneggiatori e registi. In casa mia c’erano sempre libri in giro. I miei genitori leggono moltissimo. Io, fino all’età di 14 anni, non leggevo granché. Voglio dire, avevo letto Harry Potter, certo, ma nient’altro. Poi, sono stato come fulminato e ho cominciato a divorare di tutto, ogni genere di volume e di storia. La lettura e la scrittura sono enormemente importanti per me. Sono alla base del tipo di carriera che desidero. Le mie scelte sono dettate prevalentemente dalle sceneggiature».
Avremo mai la possibilità di leggere quello che scrive?
«Spero di sì, nella forma di una sceneggiatura cinematografica. Mi piacerebbe molto scrivere un film e fare il regista. Lo so che è quello che dicono tutti gli attori. Ma io lo voglio davvero. Non so quanto possa essere bravo come sceneggiatore, ma penso che sarei un buon regista».
Adesso che è adulto, guardando indietro, come pensa che essere un attore bambino abbia influenzato il suo sviluppo emotivo? Per esempio, intorno ai 20 anni, ha corso il rischio di cadere nell’alcolismo e ne è uscito appena in tempo.
«Sì, è vero. All’inizio è tutto stupendo, ma ci sono molte cose che da ragazzino devi imparare a gestire. E non esiste una guida al percorso da seguire: la strada la devi scoprire da solo, durante il viaggio. Quando la gente critica una popstar come Justin Bieber, per esempio, io dico: state zitti. Non sapete com’è la sua vita, non sapete che cosa gli passa per la testa. Spesso mi si chiede di commentare il suo comportamento sopra le righe, o quello di altre giovani star, e io rispondo sempre: non posso. Le nostre esperienze sono tutte uniche, tutte diverse le une dalle altre. Io sono stato molto fortunato, ad esempio, perché vivevo in Inghilterra. Mi fossi trovato a Hollywood, forse sarei impazzito».
Qual è la differenza?
«Qui a Los Angeles si vive in un perenne stato di competizione. Ci si chiede in continuazione che cosa stiano facendo gli altri. Penso che se avessi avuto quelle domande in testa all’età di 11, 12 anni, ne sarei stato danneggiato parecchio. Fortunatamente non ci ho davvero pensato fino all’età di 20 anni, quando sono venuto qui per la prima volta. Guardi, questa è una lunga conversazione, potremmo andare avanti per giorni. Però direi che la cosa più importante da capire è che la fama non è destinata a durare. Io mi reputo fortunato perché l’ho capito molto presto. Ricordo di aver letto una frase dello scrittore William Golding che diceva più o meno così: “La fama sbiadisce, soltanto gli attori restano”. Nel leggerla, ho pensato che era vero. Se, crescendo, la celebrità fa parte della tua identità, devi essere in grado di riconoscere che da una parte ci sei tu e dall’altra c’è lei. Devi sapere che il mondo ti vede attraverso il filtro del successo, chi ti conosce interagisce con te sulla base di quella percezione, ma tutto ciò non durerà per sempre. Quello è il momento più pericoloso per un ragazzo. Se sei stato davvero famoso da bambino, e poi perdi la celebrità, devi sapere chi sei per sopravvivere. E io per fortuna, a 21 anni, avevo capito che ciò che davvero mi rende felice è passare il tempo con gli amici e cose simili».
In questi difficili passaggi, che ruolo hanno avuto i suoi genitori?
«Essenziale. Sono figlio unico e senza di loro non ce l’avrei mai fatta».
A questo punto, l’addetto stampa ci interrompe spazientito: «Cerchiamo di parlare del film, per favore. Usi il suo tempo, signora». Radcliffe si blocca, mi guarda confuso, mormora educato: «Se vuole farmi altre domande sul film, io sono pronto a rispondere». Ma io non ne ho. Ci guardiamo, ridacchiamo, e continuiamo la nostra conversazione.
Dicevamo: quando avrà dei figli…
«Oh, sì!».
È impaziente di diventare papà?
«No, no, ma un giorno vorrei averne».
Se vorranno seguire le sue orme nel mondo dello spettacolo e magari diventare star in erba, li scoraggerà?
«Ci ho pensato, perché immagino che i miei figli finiranno col passare molto tempo sul set e vorranno partecipare. Posso dire che, nell’insieme, la mia è stata un’ottima esperienza, quindi mi sentirei di incoraggiarli. E penso che saprei aiutarli a gestire la situazione. Non sono uno di quelli che dicono: non voglio che i miei figli facciano gli attori. Sarei davvero un ipocrita».
Questa volta ci interrompono davvero, il tempo è scaduto. Daniel si alza, mi stringe la mano, mi augura buona fortuna. E quando gli dico: «Mi raccomando, buon sonnellino», scoppia in una sonora risata e mi risponde: «Non vedo l’ora, non vedo l’ora». È proprio vero: Harry Potter non esiste più.
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