Chimamanda Ngozi Adichie: «Vinceranno le femministe felici»
È tra le 100 persone più influenti del mondo, tra i 50 leader più importanti. I suoi libri, da L’ibisco viola ad Americanah, sono tradotti in 30 lingue. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie è una star dell’editoria, in Italia la pubblica Einaudi. Ma è l’attivista Chimamanda a essere un riferimento per le donne di tutto il Pianeta.
Prima con il discorso TedxEuston Dovremmo essere tutti femministi, nel 2014 pamphlet di successo in cui invita gli uomini a battersi per la parità dei diritti e poi slogan su una desideratissima T-shirt di Dior.
Poi, nel 2017, con il manifesto Cara Ijeawele. Quindici consigli per crescere una figlia femminista, in cui spiega che a una bimba va detto, tra l’altro, che può essere femminile senza paura di non essere presa sul serio. Di sé Adichie, che vive tra gli Stati Uniti e la Nigeria, dice: «Sono una felice femminista africana che non odia gli uomini ma mette il rossetto e i tacchi alti non per compiacere gli uomini ma sé stessa». È il programma del nuovo femminismo: inclusivo, libero, sexy, che qui ci racconta.
Quando ha capito di essere una femminista?
«Non ricordo di non esserlo stata. Già da piccola mi è sempre sembrato molto chiaro che le donne e le ragazze erano considerate da meno solo per il fatto di essere donne e ragazze. Per me non aveva senso».
Ricorda un episodio?
«Avevo 8 anni e, a scuola, la maestra ci disse che chi avesse ottenuto il voto più alto nel compito in classe sarebbe diventato “controllore”, ovvero le avrebbe dato una mano a mantenere ordine e silenzio. Non specificò che quel qualcuno doveva essere un maschio, perché era scontato che fosse così. Lo scoprii quando, nonostante avessi ottenuto il voto più alto, quel ruolo fu assegnato al compagno maschio arrivato secondo».
Rendersi conto di queste ingiustizie ed essere una femminista sono la stessa cosa?
«Credo di sì. Essere femministe nel mondo occidentale vuol dire per lo più fare attivismo, mentre, secondo me, è un modo di guardare alla realtà. Ci sono donne che non sono portate per l’impegno politico, ma che rifiutano di essere discriminate e che educano le loro bambine a fare lo stesso e i loro figli a considerare le donne esseri umani completi. Per me, queste donne sono femministe».
Ce n’erano nella sua famiglia?
«La mia bisnonna. Non conosceva la parola “femminista” perché non esisteva. Ma quando suo marito morì e la famiglia di lui cercò di portarle via tutto, ha lottato per non essere privata dei suoi diritti in quanto donna. Per questo i parenti la consideravano una piantagrane. Alle ragazze ripeto spesso che non è necessario leggere Simone de Beauvoir per essere femministe. Io lo sono da quando avevo 3 anni».
Anche i suoi genitori lo erano senza sapere di esserlo?
«Erano entrambi molto progressisti. A casa eravamo tre sorelle e tre fratelli e mia madre voleva che anche i maschi le dessero una mano nelle faccende domestiche. I miei fratelli cucinavano, una cosa piuttosto rara in una società in cui se un ragazzo bolliva un uovo veniva celebrato come un evento. Quanto a mio padre, trattava noi figli alla stessa maniera, tranne nei casi in cui non era utile farlo».
Che cosa intende?
«Fra i due sessi ci sono differenze. La ragione per cui i maschi hanno dominato a lungo è perché, in generale, sono più forti fisicamente, mentre alle donne è sempre spettato il ruolo riproduttivo. Non credo che la parità consista nel trattare uomini e donne sempre esattamente allo stesso modo. La parità si raggiunge anche considerando le differenze. Per esempio, che le donne possono rimanere incinte, gli uomini no».
Suo padre come metteva in pratica questo principio?
«Ho iniziato ad avere le mestruazioni molto giovane e sono sempre state molto dolorose. Quando si trattava di dare una mano a casa, il mio papà era il primo a dire: “Lei no, perché deve riposare”».
Nel suo libro Cara Ijeawele elenca 15 consigli per crescere una bambina femminista. Li ha messi in pratica con sua figlia?
«Quando lo scrissi non ero ancora madre. Mia figlia adesso ha 6 anni e mi sono resa conto che tradurre quei principi nella vita di ogni giorno è meno facile che scriverli. Mio marito e io eravamo d’accordo che l’avremmo lasciata libera di scegliere i suoi giocattoli preferiti. Io, però, non sono una grande fan delle bambole. Da piccola ne avevo parecchie ed è per quello che non ho sviluppato abilità pratiche: i miei fratelli usavano i mattoncini Lego, mentre io tenevo in braccio il mio bambolotto. Non volevo che si commettesse lo stesso errore».
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Testo di MONICA BOGLIARDI ed ENRICA BROCARDO
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