«Chiara Poggi, la vittima senza pace»: l'editoriale di Silvia Grilli
Forse sono una delle poche in Italia che non si è appassionata al seguito del cosiddetto "Giallo di Garlasco". Già il fatto che l'omicidio di una donna di 26 anni, Chiara Poggi, venga ancora oggi definito "giallo" mi dà la nausea.
Passi che all'epoca in cui fu uccisa, 18 anni fa, non si avesse ancora la consapevolezza di che cosa fosse un femminicidio e di come si dovrebbe o non si dovrebbe raccontarlo. Ma che si continui a parlare di thriller, per di più insinuando che la vittima se la sia andata a cercare, è francamente ripugnante.
Chiara fu uccisa con furia cieca con un oggetto contundente da una persona che conosceva bene: era in pigiama quando aprì la porta di casa e fece entrare il suo assassino. Le indagini furono condotte in modo sciatto, con errori madornali, false testimonianze, reperti raccolti senza guanti o andati persi.
Il gatto di famiglia gironzolava nella scena del crimine, il cadavere della vittima non fu pesato per valutare l’ora della morte, il suo sangue venne calpestato dai carabinieri, ci fu gente che vomitò sul posto.
Un’incredibile catastrofe investigativa, una vicenda giudiziaria lunga e ingarbugliata con fughe in avanti e retromarce che, dopo due sentenze di assoluzione, portò la Corte di Cassazione a condannare il fidanzato di Chiara: Alberto Stasi, in carcere dal 2015.
Tuttavia da anni si torna a indagare, poi archiviare, quindi a indagare di nuovo Andrea Sempio, un amico del fratello della vittima. Diciotto anni dopo i carabinieri tornano con laser e droni nella villetta del delitto. Fonti d’informazione pubblicano documenti in teoria coperti dal segreto investigativo e dalla presunzione di innocenza degli indagati.
Notizie che non potrebbero essere fornite ai media, ma che qualcuno evidentemente ha procurato loro. Perché funziona così: io investigatore ti passo questa relazione se poi tu, giornalista, mi citi o mi inviti nei talk show o mi glorifichi o allarghi la mia fama.
Uno scambio di favori, insomma. Non mi diletto nel passatempo di districare l'enigma su chi sia il vero assassino: quello condannato e in carcere o quello non condannato, fuori dal carcere e indagato a singhiozzo.
Qui sono 18 anni che c'è una vittima senza pace, di cui si scandaglia ogni pezzo di corpo e ogni pezzo di vita. Due giorni dopo il funerale, il cadavere di Chiara Poggi venne riesumato perché gli investigatori si erano scordati di prendere le impronte digitali.
Oggi si torna a frugare nella sua esistenza, nelle sue amicizie, nella sua vita sentimentale e in quella sessuale. I suoi messaggi al cellulare vengono resi pubblici, corredati da allusioni sulle sue preferenze erotiche, con un linguaggio e una narrazione stereotipata che la fanno diventare una dissoluta adescatrice. La solita immagine della donna tentatrice, ben diversa dall’immagine da educanda che si voleva fare credere, che se la sarebbe andata a cercare.
Mi metto nei panni di Rita Preda, la mamma di Chiara Poggi. Da 18 anni convive con il dolore e non so se abbia fatto pace con lo strazio disumano di sopravvivere a una figlia. Ma dopo anni di riserbo e di silenzio, qualche giorno fa ha parlato davanti alla sua casa a Garlasco: «Avevamo deciso di non dire più niente, ma quando ho sentito quelle parole in tivù... Non ci ho dormito tutta notte. Stavolta non potevo farla passare, quando è troppo è troppo. Si fanno illazioni su mia figlia, che non si può difendere. Siamo disgustati da quel che dicono nei vari programmi televisivi, sui social, sui giornali. È arrivato il momento di dire basta. Non tollereremo più che s’infanghi la memoria di Chiara».
Abbraccio quella mamma. Diciotto anni dopo la morte, sua figlia è stata vittimizzata due volte con attenzione morbosa. Forse lo capirei se servisse a fare chiarezza. Ma non è di alcun aiuto. Serve solo a romanzare un femminicidio.
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