Arisa: «Preferisco vivere nel mio universo parallelo»

Al festival ha mostrato un’ennesima versione di se stessa. E ora la cantante italiana più imprevedibile dice a Grazia di essere tornata da Sanremo più felice che mai. C’entrano la reincarnazione, la sua voglia d’immensità e il suo ultimo album: «Che è come una navicella spaziale per esplorare mondi lontani»

arisa

L’albergo di Arisa a Sanremo è defilato rispetto a quelli scelti da tutti gli altri cantanti. È silenzioso: niente capannelli di fan all’ingresso, né artisti, discografici e giornalisti a chiacchierare nella hall. L’ha scelto apposta, mi racconta, perché qui si può fare tutto quello che si vuole: «Per esempio mi sono comprata lo zenzero e loro mi portano l’acqua calda per la tisana col miele. Servono l’avocado con i fiori nel piatto, mi sento una principessa di Bali. E poi ha visto le statue che ci sono in giro?», aggiunge. Arisa vuole attorno a sé un ambiente imprevedibile, come lei.
Alla nostra ultima intervista era fasciata in un tubino nero, rossetto rosso e stivaletti con borchie. Oggi mi accoglie truccata pochissimo, con un cardigan a righe e una gonna al ginocchio. Con lei è impossibile non parlare di moda, prima ancora che di musica. Perché appena si siede sul divano mi racconta di quando da piccola andava da sua cugina a leggere Grazia: «Zia era abbonata e io la invidiavo tantissimo». Poi mi dice della sua prima apparizione sul palco dell’Ariston, nel 2009: cantando Sincerità si era fatta notare proprio per uno stile mai visto prima. Perché Arisa è una che i vestiti li prende sul serio, compreso un certo golfino di lamé argentato sopra una sottoveste trasparente, che le ha causato tante critiche sul palco dell’Ariston.
«Con Manuel (Menini, suo stylist e amico, ndr) abbiamo poi capito che non ero pronta per indossare certe cose. Finisce che mi vergogno. E invece sul palco bisogna sentirsi sicure. Nel tempo ho capito che la mia sicurezza non arriva dalla sensualità, ma dalla creatività. Più un abito rispecchia la mia vera essenza, più sono felice».

Ha cambiato look tante volte, qual è quello che oggi rispecchia la sua essenza?
«Prediligo le scarpe basse a quelle alte, i calzettoni rispetto al collant: in inverno mi piace la sensazione di avere le gambe libere. Sentire gli effetti del clima sul corpo fa bene alla salute».

L’hanno ferita le critiche sul suo abbigliamento sanremese?
«Quelle fatte guardandoti negli occhi sono un gesto di altruismo e di amore, le apprezzo molto. È facile dire: “Sei meravigliosa”. È più difficile dirti: “Lavati la faccia”. Quello te lo dice solo la mamma».

Sanremo non l’ha vinto, ma che cosa le è rimasto di questa edizione?
«È stato bello ritrovarsi. Mi piacerebbe che fosse così tutto l’anno, vedere i colleghi, gli amici così come accade qui. È bella la tensione che c’è quando sei tanto impegnato nella tua passione. Nei periodi di calma siamo tutti un po’ demotivati, a Sanremo invece è tutto così attivo».

Che cosa tiene vivo il fuoco di Arisa?
«La speranza. L’idea che, se mi impegno a fare le cose per bene, riceverò grandi doni. Alcuni li ho già avuti».

Il più grande qual è?
«La sensibilità. Un regalo bellissimo, che a volte fa soffrire tanto, ma che ti fa sentire pienamente le cose».

Lei è celebre per dire tutto quello che le passa per la testa. Se ne pente mai?
«No, perché? Oggi ci siamo, domani chissà. Preferisco mostrarmi per quello che sono, quel che canto è davvero dedicate alla gente. Non voglio avere filtri con le persone. Non mi piace essere toccata, o baciata, è vero, ma l’amore che provo quando faccio qualcosa per gli altri è grande. Mi piace fare per gli altri con le mie canzoni quello che le canzoni hanno fatto per me durante la mia crescita. Mi hanno permesso di sognare quando ero piccola, hanno segnato le tappe della mia vita».

Come Cuore di Rita Pavone, che ha portato sul palco come cover? È stato detto che nessuna altra cantante sarebbe stata all’altezza dell’originale. È d’accordo?
«Davvero? No, avrebbe potuto cantarla anche Giusy Ferreri. O Amy Winehouse».

Peccato che lei non ci sia più, però.
«Eh sì ma chi lo sa, magari ritornerà da qualche parte, in un altro corpo».

Lei crede nella reincarnazione?
«Sì. Secondo me nella vita precedente ero un uccello. O una papera. O una gallina. Comunque avevo ali. E il becco, di sicuro.

Il becco?
«Sì, guardi il mio naso: sembra proprio un becco. Gli uccelli respirano dal becco, con due piccoli buchini. Crede che io sia un po’ matta? Morgan me lo dice sempre».

Ritorniamo a parlare delle sue canzoni del cuore: quali sono?
«Scende la pioggia di Gianni Morandi: “Tu nel tuo letto caldo, io per strada al freddo”». Inizia a cantare, e sembra davvero un usignolo. «Bellissima, poi: Nessuno mi può giudicare o Caterina Caselli, un mito. La musica italiana è fantastica».

Quindi rimaniamo sempre negli Anni 60?
«Quando cerchi il brio, ma sensato, quella è l’epoca giusta. Oggi tendiamo a riprendere un po’ troppo le sonorità del passato, ma d’altronde quasi tutto è già stato esplorato. Però, nell’ultimo periodo, i 20enni si stanno unendo ai nuovi dj per creare sonorità davvero creative».

Le interessano davvero?
«Sì, se potessi collaborerei con il duo inglese Disclosure, il loro disco d’esordio Settle è un capolavoro e hanno solo 20 anni. Nel mio piccolo ho comunque duettato con gli WhoMadeWho a Sanremo 2014 in Cuccurucucu di Franco Battiato. E l’unico pezzo dance del nuovo disco Una notte ancora l’ho scritto io, con Andy Ferrara. Abbiamo preso sonorità Anni 90, con echi che appartengono agli Snap».

L’album Guardando il cielo (Warner Music) è appena uscito. Cos’è la musica per lei in questo momento?
«Una navicella su cui salgo ed esploro mondi paralleli».

Con il pubblico è molto generosa, sul suo privato piuttosto schiva. Perché?
«Perché non ce l’ho. Ho un mondo fatto di cose semplici. Non ho una vita sentimentale stabile. E ho imparato da un mio amico, il cantautore Valerio Zito, che se parli troppo di amore e sentimenti, si sgonfiano. L’amore va custodito e rispettato, anche se sei un personaggio pubblico. Bisogna vivere il rapporto a due, in due. Non puoi far subire agli altri le tue scelte professionali».

Ha molti amici?
«Mi affeziono a poche persone. Dobbiamo essere preziosi per noi stessi. Dobbiamo selezionare i rapporti che ci fanno stare bene. Ogni contatto deve essere produttivo, dobbiamo dirci le cose in maniera schietta, veloce, di cuore. Solo così si va da qualche parte».

Lei è più Arisa o Rosalba Pippa, il suo vero nome?
«È la stessa cosa. Arisa è un nome troppo importante per me. E Rosalba è il frutto di quella famiglia».

A parlarle sembra che non la spaventi nulla. È così?
«Invece mi fanno paura un sacco di cose, ma bisogna darsi coraggio. Il Vangelo dice: “Se sei uccello, vola”. Io ho ricevuto dei doni, e devo andare».

Lei canta: “Se un giorno un’altra vita arriverà/mi sono già promessa di non viverla in città”. Dove, allora?
«Forse un giorno prenderò una casa al mare, ma dovrei anche incontrare una persona che condivida la mia stessa voglia di immensità, di natura e di verdure».

Verdure?
«Non sono vegetariana, ma mi piacciono tantissimo. Se mi cucini bucatini integrali e fagioli ti amo per tutta la vita. Oppure pasta e ceci, pasta e patate, zuppa di patate e sesamo».

Sa anche cucinare?
«Sì, se vuole la invito a cena, ma la avviso: non ho le sedie. O meglio, le ho, ma sono tutte trovate per strada, o in case di persone che traslocano. È una roulette russa, se ti siedi su quella sbagliata, cadi».

Ho una sedia bellissima, non è rotta ma è spaiata. Potrei regalargliela?
«Volentieri. Ma le do un consiglio: se le piace la tenga, anche se crede di non sapere che farne. E non si deve preoccupare: vedrà che la casa prima o poi ci si organizza intorno».

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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.

Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.

Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.

È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».

Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.

Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.

Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.

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Grazia è in edicola con Maya Hawke

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Ecco cosa vi aspetta nel nuovo numero di Grazia, da oggi in edicola e su app

Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.

Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.

Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.

Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.

Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.

E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com