Anna Foglietta: "Ora chiedo un nuovo rispetto"

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Durante la pandemia l’attrice Anna Foglietta si è rimboccata le maniche, ha seguito i tre figli tra giochi e compiti e risparmiato al marito in smart working ogni incombenza. Lo ha fatto di slancio, poi ha realizzato quanto fosse scontato che toccasse a lei. E in questo suo diario per Grazia spiega perché solo quando in famiglia i compiti sono condivisi, una donna può dirsi libera di essere se stessa

Donne è arrivato l’arrotino, arrota coltelli, forbici, forbici da seta, forbicine, coltelli da prosciutto... Donne è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio, aggiustiamo gli ombrelli. Ripariamo cucine a gas». Ecco, partiamo da questo semplice annuncio che riecheggia per le strade delle nostre città e comprendiamo che la questione di genere, non solo è aperta, ma difficilmente superabile. Il patriarcato è una questione culturale talmente radicata, che per tentare di avere un livellamento sociale tra uomo e donne, bisognerebbe ripartire dalla Creazione e riscrivere l’Antico Testamento.

Siamo destinate a convivere con un sistema che legittima il maschile e mortifica costantemente il femminile. Questa clausura l’abbiamo accettata monasticamente, silenziosamente e diligentemente facendo quello che ci veniva chiesto, per una forma di civiltà più che doverosa. La gente moriva e i medici e gli infermieri stavano combattendo per noi, così l’orgoglio nazionale saliva, saliva come non capitava da decenni ormai, e ci siamo stretti gli uni agli altri per condividere con i nostri vicini musica e canzoni, senza vergogna. Abbiamo cantato a squarciagola, ci siamo guardati negli occhi commossi e sorridendo sottintendevamo :“siamo tutti una stessa cosa”, un romanticismo assoluto. Tutto questo avveniva mentre a mio marito (il consulente finanziario Paolo Sopranzetti, ndr) scoppiava la dermatite avendo a che fare con la peggior crisi economica dai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle nel 2001. «Evento esogeno imprevedibile», sentivo ripetergli continuamente mentre raggiungeva la cucina, affranto ed esausto, e io, trasformata nella perfetta mogliettina Anni 50, con gonna sotto al ginocchio e grembiule con su scritto “Anna la regina della cucina” lo accoglievo tra le mie braccia dicendogli #andratuttobene. Ero convinta che dovesse avere tutto il mio sostegno e che, in questo momento in cui un’attrice non può far altro che dirette Instagram, fosse giusto che lui si sentisse sollevato dai doveri domestici e di padre (abbiamo tre figli: Lorenzo, 9 anni, Nora, 7, e Giulio, 5) per poter lavorare sereno.

Bene, alla seconda settimana volevo ucciderlo: «Sono anche tuoi figli», «Questi calzini devi raccoglierli, perché io mica sono una schiava», «Il caffè, se lo vuoi, te lo prepari». E la gonna sotto al ginocchio veniva sostituita da una divisa da kamikaze. Il sorriso aveva lasciato spazio a un ghigno teso, a mio avviso più che comprensibile. Io ho dovuto preparare le colazioni (spremute d’arancia a litri perché quel cavolo di WhatsApp che diceva che il Covid-19 si sconfigge con la vitamina C lo abbiamo ricevuto tutti e dai e a dire che è una “fake news”, intanto io le preparo), lottare ogni mattina per i ragazzi, farli lavare e vestire, trovare dei giochi interessanti da far fare loro perché giustamente bisognava stimolare la fantasia ed evitare l’abbrutimento. Tutto questo mentre sistemavo le stanze e pulivo i bagni e i pavimenti. E poi apriamo il capitolo “Compiti”... Perché c’è da fare i compiti? Ma vogliamo davvero affrontare questo argomento? Vorrei che tutte le persone che hanno figli e che hanno avuto a che fare con la didattica a distanza in questo momento accendessero una candela e si dedicassero un minuto di silenzio. Non parlatemi di schede e registri elettronici perché mi viene un attacco di panico. Ho dovuto riprendere l’“ignatia amara” che, per chi non lo sapesse è un calmante omeopatico. Non so nemmeno drogarmi decentemente.

Sono le 13 e già si arriva al pranzo, riordino della cucina. In teoria dovrei richiamare il mio agente per dirgli della sceneggiatura, ma non l’ho letta, che cosa lo chiamo a fare? «Mamma ho fameeee!»... Ops, ho la diretta Instagram. Mi trucco al volo e lego i capelli e, mentre la faccio, ho i bambini che mi solleticano i piedi, cadono facendosi male e io dissimulo con disagio e frustrazione. E intanto intorno a me sentivo persone (uomini) che si rallegravano del fatto che finalmente avevano avuto la possibilità di finire il loro romanzo e cominciarne un altro, oppure di iniziare e terminare la tetralogia televisiva della Casa di carta. E io, in difficoltà, dovevo ammettere che non riuscivo nemmeno a farmi la doccia. Passavo distrattamente davanti allo specchio del bagno, spiandomi furtiva, perché avevo paura di non riconoscermi. Però eravamo al principio di questo capitolo allucinante delle nostre esistenze, e non me ne crucciavo più di tanto anche se cominciavo già a manifestare le prime insofferenze. Dentro mi ripetevo che dovevo avere pazienza e che era giusto così, anche perché trascorrendo tanto tempo fuori casa, finalmente avevo l’opportunità di riprendere i miei spazi in famiglia... Ma il libro sul comodino ancora era fermo a pagina 370.

Andavo a dormire sempre più stanca e, dopo due settimane così, è arrivato il primo sfogo pesante. Mi sentivo in uno stranissimo sogno e non mi riconoscevo. Mi ripetevo che dovevo cercare con tutte le mie forze di farcela ricavandomi del tempo tutto per me. Ma non ci sono mai riuscita. Mi sono, col passare dei giorni, sentita sopraffatta dalle responsabilità e inadeguata verso me stessa. Perfetta coi miei figli, ma decisamente poco indulgente verso di me. La parola “mamma” mi perseguita e la sento anche quando vado al supermercato a far la spesa da sola. Spesso ho alzato la voce, cosa che detesto fare, ma era l’unico modo per liberarmi dall’ansia. Ho preparato tagliatelle, pizze, muffin, crêpe e omelette. Ho avuto la lavastoviglie rotta e cocci da raccogliere. Ho accarezzato le teste dei miei figli che non meritavano d’essere sgridati, perché che colpa vuoi che abbiano loro, come possono capire loro che la mamma questa vita non l’ha scelta, perché non le appartiene. Io non sono questo, non voglio esserlo, e la quarantena se al principio mi ha fatto comprendere che cosa potevo recuperare, soprattutto mi ha insegnato che cosa davvero non voglio essere: una casalinga frustrata.

Io sono una donna libera, da sempre, e ai miei figli ho sempre trasmesso una gran voglia di condivisione. Li ho sempre portati con me in giro per il mondo a vedere quanti milioni di modi diversi ci sono di vivere e di essere felici, partendo sempre dal rispetto di sé. Ecco io credo che noi donne in questo periodo ci siamo mancate di rispetto, perché abbiamo sentito un peso da dover sostenere, e lo abbiamo fatto con la nostra solita naturalezza, dove pensiamo di farcela, sempre, senza badare alle conseguenze. Piango al telefono con qualche amica, mentre un figlio urla che deve andare in bagno, e l’altro vuol fare merenda, e l’altro deve collegarsi alla videolezione. Insomma, io di tempo passato con me stessa non ne ho avuto mai, e mi manco, tanto, perché io mi sono sempre alimentata delle mie riflessioni, delle miei considerazioni, dei miei spazi. Perché è scontato pensare che un uomo possa riprendere il proprio lavoro e noi donne dobbiamo chiedergli il permesso e aggiornarlo su quelli che sono i nostri piani. Siamo tutte vittime di noi stesse? È anche possibile, ma a me sembra piuttosto che ci siano delle gerarchie socio culturali che rendono delle cose automatiche, ed altre no. L’uomo in quarantena può lavorare e aiutare ogni tanto, la donna deve lavorare e fare tutto il resto. Io forse ho voluto strafare facendo tre figli, ma li ho sempre allattati e cresciuti sui set per non dover rinunciare alla loro presenza e loro alla mia, ed in confronto era una passeggiata, perché mi sentivo appagata dal mio ruolo di donna “in primis” e poi di madre. Non esiste felicità di nessun tipo senza emancipazione. Ognuna deve sentirsi libera di essere la donna e madre che desidera. Se ci si sente appagate a fare le casalinghe e a vivere dedicandosi esclusivamente alla famiglia, è bellissimo. Se si ama il proprio lavoro e si gioisce rientrando la sera a casa condividendo in famiglia la bellezza della propria indipendenza è bellissimo. Impossibile per me giudicare la felicità altrui e ognuno di noi sa in che cosa consiste la propria ed è per questo che la quarantena mi ha provata così incredibilmente. Perché io, donna e madre, ho dovuto rinunciare alla mia identità, indossando la maschera della “iconografica” donna italiana, come in uno squallido carnevale. Grembiule e aspirapolvere, guantone da forno e ciabatte. E i bambini in tutto questo ci guardano ed è la cosa che più mi dispiace.

Articolo pubblicato sul numero 23 di GRAZIA (21 maggio 2020)

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com

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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.

Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.

Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».

Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.

L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.

La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».

Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.

In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».

La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.

Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».

Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.

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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

cover Grazia 4 dicembre
Questa edizione speciale celebra il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste e collezioniste

Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.

“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.

“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.

La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.

Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.

E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.

Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski. 

Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.  

Anche il rapporto tra arte cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.

Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.

Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.