Anna Foglietta: "Ora chiedo un nuovo rispetto"
Donne è arrivato l’arrotino, arrota coltelli, forbici, forbici da seta, forbicine, coltelli da prosciutto... Donne è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio, aggiustiamo gli ombrelli. Ripariamo cucine a gas». Ecco, partiamo da questo semplice annuncio che riecheggia per le strade delle nostre città e comprendiamo che la questione di genere, non solo è aperta, ma difficilmente superabile. Il patriarcato è una questione culturale talmente radicata, che per tentare di avere un livellamento sociale tra uomo e donne, bisognerebbe ripartire dalla Creazione e riscrivere l’Antico Testamento.
Siamo destinate a convivere con un sistema che legittima il maschile e mortifica costantemente il femminile. Questa clausura l’abbiamo accettata monasticamente, silenziosamente e diligentemente facendo quello che ci veniva chiesto, per una forma di civiltà più che doverosa. La gente moriva e i medici e gli infermieri stavano combattendo per noi, così l’orgoglio nazionale saliva, saliva come non capitava da decenni ormai, e ci siamo stretti gli uni agli altri per condividere con i nostri vicini musica e canzoni, senza vergogna. Abbiamo cantato a squarciagola, ci siamo guardati negli occhi commossi e sorridendo sottintendevamo :“siamo tutti una stessa cosa”, un romanticismo assoluto. Tutto questo avveniva mentre a mio marito (il consulente finanziario Paolo Sopranzetti, ndr) scoppiava la dermatite avendo a che fare con la peggior crisi economica dai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle nel 2001. «Evento esogeno imprevedibile», sentivo ripetergli continuamente mentre raggiungeva la cucina, affranto ed esausto, e io, trasformata nella perfetta mogliettina Anni 50, con gonna sotto al ginocchio e grembiule con su scritto “Anna la regina della cucina” lo accoglievo tra le mie braccia dicendogli #andratuttobene. Ero convinta che dovesse avere tutto il mio sostegno e che, in questo momento in cui un’attrice non può far altro che dirette Instagram, fosse giusto che lui si sentisse sollevato dai doveri domestici e di padre (abbiamo tre figli: Lorenzo, 9 anni, Nora, 7, e Giulio, 5) per poter lavorare sereno.
Bene, alla seconda settimana volevo ucciderlo: «Sono anche tuoi figli», «Questi calzini devi raccoglierli, perché io mica sono una schiava», «Il caffè, se lo vuoi, te lo prepari». E la gonna sotto al ginocchio veniva sostituita da una divisa da kamikaze. Il sorriso aveva lasciato spazio a un ghigno teso, a mio avviso più che comprensibile. Io ho dovuto preparare le colazioni (spremute d’arancia a litri perché quel cavolo di WhatsApp che diceva che il Covid-19 si sconfigge con la vitamina C lo abbiamo ricevuto tutti e dai e a dire che è una “fake news”, intanto io le preparo), lottare ogni mattina per i ragazzi, farli lavare e vestire, trovare dei giochi interessanti da far fare loro perché giustamente bisognava stimolare la fantasia ed evitare l’abbrutimento. Tutto questo mentre sistemavo le stanze e pulivo i bagni e i pavimenti. E poi apriamo il capitolo “Compiti”... Perché c’è da fare i compiti? Ma vogliamo davvero affrontare questo argomento? Vorrei che tutte le persone che hanno figli e che hanno avuto a che fare con la didattica a distanza in questo momento accendessero una candela e si dedicassero un minuto di silenzio. Non parlatemi di schede e registri elettronici perché mi viene un attacco di panico. Ho dovuto riprendere l’“ignatia amara” che, per chi non lo sapesse è un calmante omeopatico. Non so nemmeno drogarmi decentemente.
Sono le 13 e già si arriva al pranzo, riordino della cucina. In teoria dovrei richiamare il mio agente per dirgli della sceneggiatura, ma non l’ho letta, che cosa lo chiamo a fare? «Mamma ho fameeee!»... Ops, ho la diretta Instagram. Mi trucco al volo e lego i capelli e, mentre la faccio, ho i bambini che mi solleticano i piedi, cadono facendosi male e io dissimulo con disagio e frustrazione. E intanto intorno a me sentivo persone (uomini) che si rallegravano del fatto che finalmente avevano avuto la possibilità di finire il loro romanzo e cominciarne un altro, oppure di iniziare e terminare la tetralogia televisiva della Casa di carta. E io, in difficoltà, dovevo ammettere che non riuscivo nemmeno a farmi la doccia. Passavo distrattamente davanti allo specchio del bagno, spiandomi furtiva, perché avevo paura di non riconoscermi. Però eravamo al principio di questo capitolo allucinante delle nostre esistenze, e non me ne crucciavo più di tanto anche se cominciavo già a manifestare le prime insofferenze. Dentro mi ripetevo che dovevo avere pazienza e che era giusto così, anche perché trascorrendo tanto tempo fuori casa, finalmente avevo l’opportunità di riprendere i miei spazi in famiglia... Ma il libro sul comodino ancora era fermo a pagina 370.
Andavo a dormire sempre più stanca e, dopo due settimane così, è arrivato il primo sfogo pesante. Mi sentivo in uno stranissimo sogno e non mi riconoscevo. Mi ripetevo che dovevo cercare con tutte le mie forze di farcela ricavandomi del tempo tutto per me. Ma non ci sono mai riuscita. Mi sono, col passare dei giorni, sentita sopraffatta dalle responsabilità e inadeguata verso me stessa. Perfetta coi miei figli, ma decisamente poco indulgente verso di me. La parola “mamma” mi perseguita e la sento anche quando vado al supermercato a far la spesa da sola. Spesso ho alzato la voce, cosa che detesto fare, ma era l’unico modo per liberarmi dall’ansia. Ho preparato tagliatelle, pizze, muffin, crêpe e omelette. Ho avuto la lavastoviglie rotta e cocci da raccogliere. Ho accarezzato le teste dei miei figli che non meritavano d’essere sgridati, perché che colpa vuoi che abbiano loro, come possono capire loro che la mamma questa vita non l’ha scelta, perché non le appartiene. Io non sono questo, non voglio esserlo, e la quarantena se al principio mi ha fatto comprendere che cosa potevo recuperare, soprattutto mi ha insegnato che cosa davvero non voglio essere: una casalinga frustrata.
Io sono una donna libera, da sempre, e ai miei figli ho sempre trasmesso una gran voglia di condivisione. Li ho sempre portati con me in giro per il mondo a vedere quanti milioni di modi diversi ci sono di vivere e di essere felici, partendo sempre dal rispetto di sé. Ecco io credo che noi donne in questo periodo ci siamo mancate di rispetto, perché abbiamo sentito un peso da dover sostenere, e lo abbiamo fatto con la nostra solita naturalezza, dove pensiamo di farcela, sempre, senza badare alle conseguenze. Piango al telefono con qualche amica, mentre un figlio urla che deve andare in bagno, e l’altro vuol fare merenda, e l’altro deve collegarsi alla videolezione. Insomma, io di tempo passato con me stessa non ne ho avuto mai, e mi manco, tanto, perché io mi sono sempre alimentata delle mie riflessioni, delle miei considerazioni, dei miei spazi. Perché è scontato pensare che un uomo possa riprendere il proprio lavoro e noi donne dobbiamo chiedergli il permesso e aggiornarlo su quelli che sono i nostri piani. Siamo tutte vittime di noi stesse? È anche possibile, ma a me sembra piuttosto che ci siano delle gerarchie socio culturali che rendono delle cose automatiche, ed altre no. L’uomo in quarantena può lavorare e aiutare ogni tanto, la donna deve lavorare e fare tutto il resto. Io forse ho voluto strafare facendo tre figli, ma li ho sempre allattati e cresciuti sui set per non dover rinunciare alla loro presenza e loro alla mia, ed in confronto era una passeggiata, perché mi sentivo appagata dal mio ruolo di donna “in primis” e poi di madre. Non esiste felicità di nessun tipo senza emancipazione. Ognuna deve sentirsi libera di essere la donna e madre che desidera. Se ci si sente appagate a fare le casalinghe e a vivere dedicandosi esclusivamente alla famiglia, è bellissimo. Se si ama il proprio lavoro e si gioisce rientrando la sera a casa condividendo in famiglia la bellezza della propria indipendenza è bellissimo. Impossibile per me giudicare la felicità altrui e ognuno di noi sa in che cosa consiste la propria ed è per questo che la quarantena mi ha provata così incredibilmente. Perché io, donna e madre, ho dovuto rinunciare alla mia identità, indossando la maschera della “iconografica” donna italiana, come in uno squallido carnevale. Grembiule e aspirapolvere, guantone da forno e ciabatte. E i bambini in tutto questo ci guardano ed è la cosa che più mi dispiace.
Articolo pubblicato sul numero 23 di GRAZIA (21 maggio 2020)
- articolo dal settimanale
- in edicola lo scorso 21 maggio
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