L’8 gennaio l’attrice americana potrebbe vincere il Golden Globe per il ruolo di una scienziata che riesce a comunicare con gli alieni. «Per stabilire un contatto le emozioni contano quasi più delle parole», spiega a Grazia. E confida di aver imparato questa lezione solo ora, crescendo la sua bambina

«Ogni volta che ricevo un’offerta di lavoro, prima ancora di leggere la sceneggiatura chiedo al regista: perché vuoi proprio me? Se mi risponde perché sono bella, rifiuto il film». Me lo rivela Amy Adams all’inizio dell’intervista e in queste parole c’è la chiave per capire un po’ meglio l’attrice che da un quindicennio ci regala un’interpretazione più emozionante dell’altra, dalla suorina che tiene testa alla badessa Meryl Streep nel film Il dubbio alla fidanzata dell’Uomo Pipistrello in Batman v Superman: Dawn of Justice, dalla truffatrice sexy di American Hustle – L’apparenza inganna alla gallerista snob di Animali notturni. Non può essere solo merito degli occhi azzurri che “bucano” lo schermo, della pelle chiarissima che emana luce e dell’indubbio talento. Amy, 42 anni, una figlia di 6, Aviana Olea, lo stesso uomo da 16 (l’attore e artista Darren Le Gallo, suo coetaneo), zero scandali e cinque nomination all’Oscar, mette nel suo lavoro una carica emotiva che la rende speciale. E una verità che arriva al cuore dello spettatore. È una star e un’apprezzata testimonial di moda. «Ma ancora oggi mi sforzo di vivere come una donna normale, lontana dai riflettori», mi spiega lisciando la bella gonna di seta, in tono con i capelli ramati. Forse perché è cresciuta nella massima semplicità con sei fratelli in una famiglia di culto mormone, madre ex ginnasta e padre militare in servizio in Italia, nella base di Aviano (proprio in ricordo di quel periodo Amy ha chiamato la figlia Aviana). «Mi piace fare la mamma e faccio anche volontariato nelle scuole», mi racconta l’attrice guardandomi negli occhi.
Ma il cinema glielo permette fino a un certo punto. Nel suo curriculum si moltiplicano i film e forse il sospirato Oscar, dopo la candidatura conquistata ai Golden Globe dell’8 gennaio, potrebbe arrivare proprio per l’ultimo: Arrival, ispirato al racconto Storia della tua vita di Ted Chiang (Frassinelli) e diretto da Denis Villeneuve (nelle sale dal 19 gennaio). Amy interpreta Louise, una linguista incaricata dal governo americano di decifrare i messaggi espressi sotto forma di misteriosi ghirigori dagli alieni sbarcati sulla Terra a bordo di navicelle a forma di guscio. Che cosa vogliono dirci, che intenzioni hanno? Sarà Louise, che cerca di elaborare il lutto per la morte della figlia, a cercare la riposta (l’affiancano gli attori Jeremy Renner e Forest Whitaker) provando a comunicare con gli extraterrestri che l’aiutano a scoprire verità sconvolgenti sulla sua vita.
Mi tolga una curiosità: il regista Denis Villeneuve le ha spiegato perché ha scelto lei?
«Mi ha detto che attraverso i miei occhi si sarebbero capiti i pensieri di Louise, una madre che cerca di proteggere se stessa dal dolore e la figlia dal destino. Ciò che facciamo ogni giorno noi genitori».
Ha girato Arrival perché nella sua carriera mancava un film di fantascienza?
«No, non per questo motivo. Quando è arrivata la sceneggiatura, avevo deciso di prendermi una pausa dal lavoro per fare la mamma. Poi, leggendola attentamente, mi sono commossa. Se proprio vuole la verità, ho pianto. Provavo un’enorme compassione per il mio personaggio che soffre. Ma alla fine del film, trovano spazio la speranza e la gioia. E c’è un’altra ragione per cui ho detto di sì al regista».
E qual è?
«Dieci o vent’anni fa, il protagonista di Arrival sarebbe stato un uomo. I bei ruoli femminili continuano a scarseggiare, ma qualche passo avanti lo abbiamo fatto. Il cinema sta recuperando il ritardo che nelle altre arti non esiste. Nella letteratura, per esempio, abbondano le scrittrici e i personaggi di spessore. Meglio tardi che mai, sono felice di aver interpretato un ruolo che rispecchia tante donne di oggi».
In che senso? Ammetterà che non sono molte le scienziate incaricate di decifrare gli scarabocchi degli alieni.
«La mia Louise somiglia alle donne che attraversano la vita con intelligenza, lottando ogni giorno per conciliare carriera e famiglia. È un’impresa difficile e non riguarda solo le scienziate, ma tutte noi che amiamo il nostro lavoro senza voler rinunciare alla maternità».
Essere madre ha influenzato la sua interpretazione?
«Non solo, ha cambiato il mio approccio con il lavoro. Prima della nascita della bambina portavo a casa dal set le mie ansie e le mie insicurezze. Ora non più. In Arrival il mio personaggio cerca la connessione con gli alieni proprio come una madre si sforza di comunicare con il proprio figlio stabilendo con lui, soprattutto nei primi mesi di vita, un contatto emotivo forte».
E lei che tipo di contatto ha stabilito con sua figlia?
«Nei primi due anni mi sono sforzata di tenerla in buona salute, come fanno tutte le mamme. Ora che è cresciuta, cerco di farle apprezzare ogni singolo istante ma anche le pause tra un momento e l’altro: anche questi definiscono la nostra esistenza. Pensi che è stata proprio Aviana ad aiutarmi ad interpretare il mio personaggio nel film».
In che modo?
«Mia figlia viene spesso con me, quando viaggio per lavoro. Guardando lei e gli altri bambini che non parlano la stessa lingua ma riescono comunque a intendersi, ho capito che la comunicazione e il linguaggio non si basano solo sulle parole, ma sull’empatia. È proprio quella che prova Louise quando cerca di entrare in contatto con gli extraterrestri».
Sarebbe felice di conoscere il destino che l’aspetta?
«Da una parte sarei curiosa, ma finirei in preda all’agitazione. Non mi sento forte come Louise. Sono la regina dell’ansia, un sentimento che mi ha sempre fatto compagnia».
Anche di recente?
«Si, proprio durante la lavorazione del film sono stata colta dal panico. Dovevo dire alcune frasi in cinese mandarino, una lingua armoniosa ma terribilmente complessa, e mi ero preparata con un’insegnante imparando tutto a memoria. Vado sul set con un atteggiamento sprezzante tipo: “Sono una grande attrice, che cosa sarà mai ripetere quattro battute”. Invece dimentico tutto e comincio a sudare freddo. Strano, perché non perdo mai il controllo. Alla fine la memoria è tornata, ma le confesso che ho avuto paura».
Per lei è importante la memoria?
«La considero un dono che ci aiuta ad apprezzare i momenti che contano della vita. Sono portata a credere anche nel déjà-vu, l’esperienza psichica che ci fa credere di aver già vissuto un determinato momento. Un vecchio saggio mi ha spiegato che ci aiuta a verificare il nostro percorso di vita, per capire se siamo sulla strada giusta».
Dica la verità, crede nell’esistenza degli extraterrestri?
«Non la escludo. Spero che ci sia un’altra vita al di là della nostra. Sarei pronta a comunicare con chi è lassù».
Perché ha voluto fare l’attrice?
«Sempre per comunicare, ma attraverso il corpo. Infatti ho cominciato come ballerina, poi sono passata al teatro musicale. Ho sempre odiato la scuola. Sono nata a Vicenza, nel periodo in cui papà prestava servizio in Italia e, una volta tornata in America, a 18 anni ho cominciato a lavorare come cameriera e commessa: non c’erano molti soldi in casa. Ho lasciato il ballo e ho deciso di fare l’attrice».
Anche lei è stata pagata meno dei suoi colleghi maschi?
«Certo, e ne ero consapevole. Ma non ho protestato perché, se volevo lavorare, non avevo scelta. Per questo sono fiera di Jennifer Lawrence, con la quale ho recitato nel film American Hustle, perché ha fatto la voce grossa contro la disparità salariale».
La protagonista del film di Tom Ford Animali Notturni è poco simpatica: com’è riuscita a interpretarla?
«All’inizio non volevo saperne e Ford è stato molto paziente. Alla fine ho trovato anche in Susan qualcosa che mi piacesse: la sua verità. Quella che cerco in ogni personaggio. Non potrei dare voce a donne non autentiche, nel bene e nel male».
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