di ANNALENA BENINI
La pandemia, come le onde del mare in tempesta, ha portato a galla cose che giacevano sotto la sabbia, scarpe spaiate, meravigliose conchiglie, tartarughe secolari e lavoro domestico. È sempre stato lì, ma nessuno lo voleva vedere. È sempre stato lì, ma fingevamo di non accorgercene. Esci, vai, corri, fa’ la riunione, prendi l’autobus, litiga con il tuo capo, ama, scappa, sistemati i capelli, calcola quanti soldi ti servono per quell’automobile, calcola quanta bravura ti ci vuole per il rispetto, per la promozione, per l’aumento di stipendio, e fallo mentre lavi i piatti, passi l’aspirapolvere, stendi il bucato, raccogli i calzini di tuo marito dal pavimento del bagno e ti ricordi che domattina viene l’idraulico, resti tu a casa vero? Certo amore, trovo un modo. Preferivamo non pensarci, perché anche i pensieri hanno un costo in energie. Le nostre energie migliori le mettevamo là fuori, oppure le riversavamo dentro casa con il pensiero dolce che prendersi cura è bello. E con il pensiero narcisistico che senza di noi vai tutto a rotoli.
Prendersi cura è bellissimo, e senza di noi va tutto a rotoli, ma è anche un lavoro. E adesso il mare in tempesta ha portato a galla questa verità. Nel periodo del lockdown più rigido, quando nessuno di noi usciva se non per la spesa e il cane, quando la signora che fa le pulizie è stata a casa otto settimane (e abbiamo continuato a pagarla normalmente, senza metterla in ferie o altro, perché era giusto, e perché è giusto che i lavoratori siano il più possibile tutelati di fronte a una pandemia mondiale), mio marito e io lavoravamo come prima, però da casa. Io in cucina e lui in salotto. Da casa significa, oltre al lavoro, pasti per tutta la famiglia, lavare i piatti, lavare i pavimenti, lavare i bagni, fare il bucato, stendere il bucato, stirare, mettere in ordine anche se si è disordinati come noi, sistemare le camicie e le magliette e le felpe dei ragazzi nei cassetti, aspirare con l’aspirapolvere i peli del cane dappertutto, occuparsi di quella pentola particolarmente incrostata, e un giorno che ho guardato fuori dalla finestra attraverso il vetro e c’era il sole, decidere in un impeto di rabbia di lavare tutte le finestre della casa. Avevo appeso all’armadietto della cucina un foglio con i compiti di ciascun membro della famiglia, e per qualche strana magia della mente, delirio di onnipotenza o di sottomissione, visto che il foglio l’avevo ideato e compilato io, ero proprio io quella con il carico di lavoro più pesante. Io a lavare i bagni e i pavimenti, io a pulire a fondo la cucina, io a cambiare le lenzuola e a fare i bucati. Avevo le stesse consegne lavorative di mio marito, ma mi sentivo in dovere di fare migliaia di cose più di lui, cose di cui forse mi rendevo conto solo io, cose che solo io ero in grado di fare, cose per cui serviva una mente superiore (separare i bianchi dai colorati), cose da donna? Cose che ritengo essere il mio lavoro gratuito? È una questione molto complessa, che ha a che fare con l’istinto di cura, con un’abitudine culturale millenaria, con l’educazione dei maschi (e però l’educazione dei maschi appartiene alle madri, cioè alle donne, e ai padri), e con questa idea, anch’essa millenaria, che il lavoro casalingo sia gratuito e femminile. Che la lavatrice sia femmina, come l’aspirapolvere del resto. Nei taccuini di Susan Sontag ho letto questo pensiero: “Voglio essere buona”, “Perché?”, “Voglio essere ciò che ammiro”, “Perché non vuoi essere ciò che sei?”. E mi sono chiesta: essere ciò che sono comprende anche essere buona, essere ammirevole, essere la più buona della casa, occuparmi di tutto, anche degli orrendi calzini e dell’orrendo lavandino pieno di calcare, forse perché sono una donna? In nessun angolo della mia mente ho mai avuto il desiderio di essere: la regina della casa. In nessun angolo della mia educazione il modello casalinga Anni 50 ha mai vinto nessun premio. Mio nonno diceva sempre a tutte noi bambine e ragazze: non sposatevi mai! Siate libere! Ma allora perché penso che è mio dovere far brillare i fornelli e invece se mio marito passa l’aspirapolvere provo un leggero imbarazzo invece che un senso di trionfo?
Senza contare, poi, che tutto questo lavoro manda avanti il nostro paese. Manda gli uomini a lavorare con i vestiti puliti, perfino. E si occupa dei figli quando le scuole sono chiuse, come stiamo osservando adesso: passo più tempo a controllare le lezioni online dei miei figli che le mie riunioni su Skype e Zoom. Gli insegnanti si stanno dimostrando eroici, ma io aggiungerei: anche le madri.
In Italia ogni giorno una donna dedica 306 minuti, cinque ore della propria vita, a questo lavoro non pagato. Gli uomini 131 minuti soltanto, poco più di due ore. Il lavoro riguarda la pulizia quotidiana della casa, la cucina e la cura dei bambini e degli anziani, ma anche il tempo speso nei vari spostamenti (fare la spesa, accompagnare a scuola, negli ambulatori medici, a fare sport...). Il divario emerso dalle ricerche dell’Organizzazione per la Cooperazione e sviluppo economico non è direttamente misurabile economicamente ed è molto vasto. Ed è vasto perché questo lavoro di cura costruisce il presente e il futuro di tutta la società, e il suo valore è praticamente inestimabile. Le ore di lavoro non retribuito in casa riguardano naturalmente anche le donne che hanno una vita professionale. Secondo gli ultimi dati disponibili del Censis, l’occupazione femminile è del 49,5 per cento per le donne nella fascia di età 15-64 anni contro il 67,6 per cento degli uomini. E le donne che si dichiarano casalinghe sono 7milioni 338mila.
Il lockdown ha portato alla luce questo lavoro invisibile, che tutti conosciamo ma preferiamo non guardare. Queste ore donate, questo Pil che portiamo in dote. Una garanzia che nessuno ci ha riconosciuto ma che tutti hanno sfruttato. In questi mesi a casa, uno di fronte all’altro, finalmente pari, con le stesse ore a disposizione, con gli stessi letti da rifare, abbiamo scoperto che non siamo per niente pari. Che io sia un’infermiera, un’avvocata, una maestra, una scrittrice, un’impiegata, un’operaia, o l’amministratrice delegata dell’azienda in fase di riapertura, il lavoro di casa si è preso il centro della scena.
Mio marito ha passato il mese di marzo e di aprile a ringraziarmi, per ogni piatto di spaghetti e per ogni camicia pulita, per ogni sanificazione del bagno, e forse questo ha appagato il mio senso di giustizia, e mi ha convinto: senza di me andrebbe tutto a rotoli. Ma perché, è questa la domanda: perché ci si aspetta da noi il moltiplicarsi delle forze, e perché noi siamo disposte a moltiplicare le nostre forze a titolo gratuito? Perché io che lavo anche i pavimenti e lavoro bene certo quanto un uomo del mio livello professionale, guadagno di meno? Non ho la sindrome di Cenerentola, che comunque è andata al ballo solo dopo avere pulito tutta la casa e spazzato il camino, e ha avuto bisogno dell’intervento di una fata, non penso che solo un principe possa salvarmi: mi salvo da sola, grazie mille, ma penso che il contributo dato al mondo debba essere riconosciuto. Non per narcisismo, e nemmeno per vittimismo, ma semplicemente perché noi lavoriamo di più.
Articolo pubblicato sul numero 23 di GRAZIA (21 maggio 2020)
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