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Amanda Nguyen: «I miei abiti non fanno di me una preda»

Amanda Nguyen: «I miei abiti non fanno di me una preda»

Quando era una studentessa Amanda Nguyen subì un abuso sessuale, ma non riuscì a ottenere giustizia. Da allora si è battuta perché fosse più facile denunciare. Adesso a New York l'attivista ha dato vita alla mostra What Were You Wearing? - Come eri vestita?, in cui sono esposti gli indumenti indossati da tante donne al momento dello stupro. «Voglio combattere», dice, «chi sminuisce le vittime e le considera responsabili di ciò che accade loro».
Amanda Nguyen

Ha sempre avuto un sogno, Amanda Nguyen: diventare un’astronauta e, raccontandomelo, gli occhi le si illuminano di gioia, la stessa che emana dalle sue parole, dai suoi gesti, dalla sua passione, e che ha rischiato di perdere.

Nel 2013, mentre studiava all’università di Harvard, fu violentata e, oltre al dolore lacerante per l’esperienza subita, si trovò a gestire la frustrazione per una legislazione che prevedeva, fra le altre cose, la distruzione del kit antistupro (le prove di un reato sessuale) e quindi la cancellazione delle prove stesse, in assenza di denuncia immediata.

Un sistema che lei, da quel giorno, ha contribuito a cambiare, dedicandosi completamente alla difesa dei diritti delle vittime di violenza con la sua associazione no profit Rise.

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il 35 per cento delle donne in tutto il mondo, quasi un miliardo e mezzo di persone, è sopravvissuta a violenze sessuali.

Abbiamo incontrato Amanda alle Nazioni Unite di New York, per l’inaugurazione della mostra What Were You Wearing? (Che cosa indossavi?), che espone, con quelli di altre sopravvissute, gli abiti che lei portava al momento della violenza.

Amanda Nguyen (2)

«Solo in caso di stupro sono le vittime a doversi difendere rispondendo a domande come quella che dà il titolo alla mostra. La cultura in cui nasce lo stupro, che sposta sulle vittime la responsabilità di ciò che accade loro, è molto pervasiva. Quando si partecipa a un evento di moda, per esempio, gli abiti sono il centro di tutto e per questo ci si informa sui capi indossati. Proprio durante una sfilata, mi sono resa conto che quella stessa domanda, “Che cosa indossavi?”, mi era stata rivolta dopo lo stupro: esattamente le stesse parole, ma con un potere tanto diverso. Nel mondo della moda, abiti e gioielli sono espressione di creatività; per una vittima di stupro, vengono visti come un elemento di vergogna. Far ricadere la colpa sulle vittime serve anche a sminuire il fenomeno così da non doverlo affrontare davvero. L’arte aiuta a costruire empatia. Basti pensare, per esempio, alla reazione di chi, entrando all’Onu, vede per caso questi manichini con vestiti normali e, solo in un secondo momento, ne comprende il contesto e il potere».

Lei a soli 25 anni è stata l’artefice dell’approvazione della Legge sui diritti delle sopravvissute alle aggressioni sessuali. Ci spieghi meglio di che cosa si tratta.
«La legge interviene in molti elementi chiave, fra cui quello della conservazione delle prove del crimine. Inoltre adesso stiamo lavorando per far approvare dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una risoluzione che estenda a livello globale i princìpi di questa legge. Questa risoluzione garantirebbe un accesso più equo al sistema di giustizia sociale: dall’assistenza medica al diritto di avere un’ istruzione. In molti Paesi una donna stuprata che rimane incinta deve lasciare la scuola».

Continua a leggere l'intervista a Amanda Nguyen sul numero di Grazia ora in edicola.

Testo di Angela Vitaliano da New York

© Riproduzione riservata

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