Rooney Mara: «Perdermi è la cosa che mi piace di più»
Al cinema interpreta sempre personaggi al limite, come la protagonista di Uomini che odiano le donne o del nuovo film con Robert Redford La scoperta. Perché per Rooney Mara l’importante è spiazzare: «Chi mi guarda, certo, ma soprattutto me stessa»
Capelli lunghi e biondi, sguardo perso nel vuoto. L’ultimo personaggio interpretato dall’attrice americana Rooney Mara nel misterioso film fantascientifico La scoperta (su Netflix dal 31 marzo) porta con sé già nel trailer tutto il fascino enigmatico che ha fatto la fortuna di questa ragazza.
Lo stesso che negli Stati Uniti stanno già ammirando nel film appena uscito Song to Song, dove invece Mara, accanto a Ryan Gosling e Michael Fassbender, è una musicista che cerca di sfondare.
Incontro Rooney a Los Angeles. Ha i capelli nerissimi tutti da un lato e nel suo abito Louis Vuitton nero rivedo una versione super-chic della dura hacker Lisbeth Salander della saga di Millennium, ma anche l’eleganza rock della più dolce Lucy, coprotagonista del film Lion, sorpresa dell’anno scorso e candidato a sei premi Oscar.
In La scoperta, accanto a Robert Redford e a Jason Segel, Mara è Isla, una ragazza che si trova in un mondo dove è stata dimostrata l’esistenza della vita dopo la morte e dove milioni di persone si suicidano solo per avere una nuova possibilità.
Il film è diretto da Charlie McDowell, compagno discreto dell’attrice da sette anni: mentre i due si vedono rarissimamente insieme, in questi giorni le foto di Rooney accanto a Joaquin Phoenix, sul set del film Maria Maddalena, hanno fatto parlare la stampa scandalistica di una nuova relazione.
Ma sapere la verità da Mara su questo tema non è facile. Forse preferirebbe raccontarci il finale top secret di La scoperta.
Rooney, lei è una delle star più riservate di Hollywood. Come fa a tenersi lontana dai riflettori?
«Non ci crede mai nessuno, ma la maggior parte del tempo giro indisturbata. E se non fosse possibile starsene un po’ per conto proprio, la mia non sarebbe per nulla una bella vita».
Le piace, invece, interpretare l’esistenza di donne sempre così irregolari?
«È strano: quando lavoro, mi trovo immersa in un mondo alternativo. Non è reale, ma lo sembra, dato che per diverse settimane devo vivere la vita di un’altra. Però, dopo l’ultimo ciak, voglio solo tornare a essere me stessa. Quella è l’unica realtà che desidero».
Lei ad aprile compirà 32 anni, ma è nel cinema da moltissimo. Sente che qualcosa è cambiato?
«Sì, a forza di ruoli spiazzanti, ogni volta mi sento una persona diversa».
Non è disorientante?
«Affatto, anzi spero che vada avanti così a lungo. Se guardo nel mio passato, ci sono aspetti di me che sono quasi irriconoscibili oggi. E questo mi piace molto».
Quali obiettivi si è data prima dei 40?
«L’altro giorno pensavo che, se il mondo non cambia, ho davanti a me giusto 10 o 15 anni prima che la mia carriera fondamentalmente finisca. E dato che caratterialmente sono un po’ cinica vorrei mettere in scena il più possibile delle storie positive, che possano spingerci, magari, a sperare in un mondo migliore».
Però ora la vediamo in un film che, come premessa, racconta di un’epidemia di suicidi.
«La scoperta va visto fino alla fine, prima di giudicarlo. E comunque oggi non credo si possa aspettare troppa coerenza da me: ho dormito solo tre ore la scorsa notte».
Come mai?
«C’è voluto molto lavoro per avere questo viso e quest’acconciatura», ride. «No, la verità è che quando lavoro tutto quello che ha a che fare con il benessere e la cura di me stessa finisce in secondo piano. Io provo a fare esercizio ogni giorno, mangiare bene e a orari regolari, dormire: ma non sempre riesco. Stanotte, per esempio, non ci sono riuscita».
Come fa a tenere i piedi per terra?
«In questo momento non ne sono capace, mi sono un po’ persa. A volte credo che parte della vite di attrice sia dover vendere la propria immagine agli altri, e io non sono brava come venditrice. So benissimo chi sono, ma faccio fatica a sentirmi davvero libera in un mondo dove le apparenze contano più della sostanza».
È la dura legge di Hollywood.
«Già, m’impegno per adattarmi solo per un motivo: perché so che i sacrifici e i tappeti rossi che eviterei valgono comunque il prezzo della vita che ho».
Un altro degli obblighi è viaggiare molto. C’è qualche luogo del mondo, dove ha recitato, che le è rimasto nel cuore?
«Quando avevo 17 anni ho fatto uno splendido viaggio tra Ecuador, Bolivia e Perù: quattro mesi con lo zaino in spalla che hanno cambiato la mia vita, mostrandomi un mondo vero, senza lo scudo protettivo dei privilegi che avevo avuto fino a quel momento. Se penso alla mia vita adulta, però, forse la meta che mi ha cambiato è il Kenya».
Come mai?
«Ho sentito una connessione immediata con quei luoghi e con chi li abitava. Noi spesso usiamo la parola “problema” perché ci si è rotto lo schermo del telefonino, o perdiamo la pazienza perché internet non funziona in aereo. Poi vai in Africa e vedi con i tuoi occhi, perché in realtà già lo sai, che le donne combattono ogni giorno per dare da mangiare ai loro figli, pagare l’affitto, sopravvivere alle malattie. Raccontarlo così è banale, ma lì ho visto il mondo com’è, con tutte le sue vere difficoltà».
E ha deciso di creare Faces of Kibera, una fondazione che aiuta gli orfani di Kibera, a Nairobi. Frequentando quella comunità, non le è venuta voglia di farsi una famiglia, o magari di adottare uno di quei bambini?
«Credo che tutto sia possibile, sono aperta a ogni possibilità perché sogno una famiglia. Ma forse è ancora presto, può rifarmi la stessa domanda tra cinque anni».
L’ho fatta perché, in passato, lei aveva già parlato di adozioni.
«Sì, il tema mi ha sempre interessato e ho anche cercato di convincere i miei genitori a prendere con noi un bambino». Come mai? «Uno dei miei primi lavori era stato in un campus per minori e ricordo di aver conosciuto una ragazza adottata: era straordinaria. Una cosa che ho imparato crescendo, invece, è che non bisogna orientarsi necessariamente all’Africa o all’India, quando si pensa di adottare: negli Stati Uniti ci sono ancora tantissimi bambini bisognosi. A volte ci dimentichiamo quanto bene si possa fare a chi è già qui».
Questo spirito cristiano le viene anche dal ruolo di Maria Maddalena, la donna che testimoniò la resurrezione di Gesù? Questo film, che vedremo il prossimo anno, ha cambiato il suo rapporto con la religione?
«Non è un film religioso, ma una storia spirituale: vogliamo mandare un messaggio il più possibile universale».
Avete girato in Sicilia, in provincia di Trapani, a Matera, a Napoli e a Roma. Che cosa ha trovato in Italia?
«In parte le mie origini. Sono mezza italiana (la nonna materna di Rooney lo era, ndr). E poi, grazie al set italiano, sono potuta scappare da Los Angeles per un po’».
Insomma, se c’è una diva antidiva, questa è Rooney. Prima di salutarla le chiedo qualcosa di Song to Song, il film musicale del regista di culto Terrence Malick, famoso per lasciare i suoi interpreti all’oscuro della trama delle sue opere: «Sono passati cinque anni da quando abbiamo girato e finalmente vedremo il film», mi dice sorridendo. «Terrence è proprio come lo descrivono: ci ha raccontato una bozza della trama, ci ha detto due o tre dettagli sui personaggi e poi via. Ogni giorno sul set succedeva qualcosa di diverso, non sapevamo mai che cosa aspettarci. Ma eravamo lì anche per questo».
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