Ferzan Ozpetek: Instabul mia, ritrova la tua anima
Per il suo ultimo film il regista italo-turco Ferzan Özpetek è tornato a casa. «Quello è il luogo in cui mia madre mi ha cresciuto senza barriere», dice a Grazia. E spiega che cosa lo ha sorpres odi un Paese che deve scegliere tra futuro e intolleranza
Un viaggio nei misteri, nelle seduzioni e nei contrasti di Istanbul, una città in bilico tra Oriente e Occidente, passato e futuro, arte e violenza. Un ritorno a casa all’insegna dei sentimenti più potenti e dei ricordi rimossi: dopo tanti film realizzati nel nostro Paese, il regista Ferzan Özpetek, 58 anni, turco di nascita e naturalizzato italiano, fa i conti con le sue radici.
Il 2 marzo sarà in sala Rosso Istanbul, il film tratto dal suo romanzo omonimo (Mondadori), girato nella città sul Bosforo, interpretato dagli attori turchi Halit Ergenç, Tuba Büyüküstün, Mehmet Günsür e la salace Serra Yilmaz, già vista in tanti film di Ferzan.
Al centro della storia è un editor che torna dopo vent’anni a Istanbul per aiutare un famoso regista a finire di scrivere un romanzo.
Protagoniste, com’è nello stile di Özpetek, sono sempre le emozioni. «Dentro questa nuova impresa ho messo tutto me stesso», mi spiega il regista nella sua casa romana nel quartiere Ostiense, diventato di moda grazie a Le fate ignoranti, uno dei suoi più grandi successi.
Gli ultimi mesi hanno segnato, nella gioia e nel dolore, la sua vita: si è unito civilmente al compagno Simone Pontesilli, ha perso l’adorata madre e per girare il film è tornato nei luoghi della sua giovinezza.
Che effetto le ha fatto tornare a stare per un lungo periodo nella sua città d’origine?
«È stata un’esperienza interessante, quasi inaspettata. Vado spesso a Istanbul, ma non mi ero mai fermato per tre mesi. I primi tempi sul set di Rosso Istanbul facevo fatica a parlare il turco con la troupe. E ho scoperto una città profondamente cambiata, proiettata verso il futuro, modernissima, ricca di vita culturale».
Ma anche di tensioni politiche e violenza: subito dopo la fine delle riprese, l’estate scorsa, c’è stato il fallito golpe.
«E io non ho nascosto quest’altro aspetto della città: nel film si vedono le “madri del sabato” che ogni settimana si riuniscono per cercare i figli scomparsi, l’arrivo dei curdi, i militari che partono per la guerra. Ho lasciato i rumori di fondo: gli escavatori che preparano le nuove costruzioni mischiati alle voci dei muezzin. Sacro e profano, questa è Istanbul».
Le viene mai la tentazione di tornare a vivere sul Bosforo, nella sua bella casa che guarda la Torre di Galata?
«Ho scelto Roma per la sua luce e non ci rinuncio. Quand’ero ragazzo avevo deciso di andare in America. Non per bisogno, ma per studiare. Poi sono capitato nel vostro Paese e sono rimasto intrappolato per sempre».
Che tipo di adolescenza ha avuto?
«Sono stato un adolescente felice di stare da solo e al tempo stesso immerso in una vita sociale intensa. La nostra casa era sempre piena di gente, le proverbiali tavolate dei miei film appartengono alla mia storia personale. Sono cresciuto in un ambiente laico e intellettualmente aperto. Nel mio quartiere vivevano greci e armeni, cristiani e musulmani. Mia madre aveva tante amiche curde. Devo tutto alla mia formazione senza barriere. Oggi invece avanzano intolleranza e chiusure».
La nostalgia è un sentimento che le appartiene?
«Oggi penso con tenerezza agli yali, le case affacciate sul Bosforo che ho messo nel film, ai luoghi delle mie estati, ai profumi di Istanbul. Ma lo stesso senso di appartenenza mi lega ormai all’Italia. Ho due identità: sono fortunato».
Da noi, oltre al successo, ha trovato anche l’amore: è venuto naturale ufficializzare il vostro rapporto?
«Simone e io stiamo insieme da quindici anni e abbiamo approfittato della legge che, regolando i diritti pratici, finalmente riconosce dignità alle persone. Ma parlare di matrimonio mi fa sorridere. Noi non abbiamo voluto scimmiottare le cerimonie nuziali: niente fiori, anelli, banchetti e ciascuno ha mantenuto il proprio cognome. Dopo la firma in Campidoglio siamo andati al mare a mangiare spaghetti con le telline con quattro amici».
Che cosa apprezza di più nel suo compagno?
«Simone è l’appoggio della mia vita, mi sostiene in tutto, ha un animo buono e un modo di fare gentile. Ma non voglio parlare del nostro rapporto, sempre vissuto all’insegna della riservatezza. Come gli altri sentimenti: dopo la morte della mamma ho fatto un post su Instagram, ma poi mi sono pentito».
È contrario alle ostentazioni che spesso accompagnano le scelte, o le conquiste, di molti gay?
«Ognuno deve sentirsi libero di vivere e comportarsi come si sente più felice. Vale anche per l’utero in affitto: non ho mai pensato di avere un figlio grazie alla maternità surrogata, ma chi sceglie diversamente ha il diritto di farlo. Credo anche che il Gay Pride sarebbe più efficace se i partecipanti sfilassero in giacca e cravatta. Ognuno però deve fare come gli pare».
Pensa che i suoi film abbiano contribuito a far accettare l’omosessualità a un’opinione pubblica allargata?
«Sono stato il primo regista a far entrare l’omosessualità nelle famiglie perché ho parlato di sentimenti. Quando mi chiedono perché nei film metto sempre dei personaggi gay, rispondo: “Sono gli altri che li tolgono”. Fanno parte della vita, ma non c’è più bisogno di sottolinearlo. Se girassi oggi Le fate ignoranti non mostrerei Stefano Accorsi in intimità con un ragazzo e in Saturno contro taglierei il bacio tra Pierfrancesco Favino e Luca Argentero».
Si sente molto cambiato rispetto a venti anni fa?
«La riuscita nel lavoro mi ha fatto capire che ho toccato temi importanti, in sintonia con i sentimenti delle persone. Questo oggi mi dà forza. Ma ho anche le paure che derivano dall’incertezza del mondo». Lei che cosa si aspetta dal futuro? «Vorrei avere Simone sempre vicino, una buona salute e tanti film da girare. Aspiro a essere felice, come tutti».
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