Alessandra Airò a Los Angeles con la musa YSL Staz Lindes
Il diario di viaggio di Alessandra Airò, It Blogger di Grazia.it, a Los Angeles alla scoperta delle novità make up Yves Saint Laurent
La macchina, una Mustang del ’78, procede su Melrose Avenue a velocità costante, sulle note di Blouson Noir degli Aaron: supera un murales con la scritta “Wake up America” (“Svegliati America”), innumerevoli tatuatori, negozi di lusso, qualche semaforo, due ragazze che fanno sport con cane a seguito, parcheggi sconfinati senza l’ombra di una macchina.
Inizia così questo viaggio a Los Angeles, tra cieli rosa che non hanno bisogno di un filtro di Instagram, strade costeggiate di palme che non oppongono resistenza e una guida d’eccezione: Staz Lindes, 24 anni, modella e chitarrista figlia d’arte (suona nella band The Paranoyds e suo padre è Hal Lindes dei Dire Straits), perfetta nel suo nuovo ruolo di ambasciatrice per il make up Yves Saint Laurent.
L’hotel è l’Ace Downtown. La stanza è la 701. Mentre mi rilasso tra le lenzuola, mi rendo conto di non avere né la spazzola, né la mia T-shirt preferita. E nemmeno sonno. Il primo colpo di fulmine di questi tre giorni è per l’avocado toast che preparano qui, accompagnato da una tazza di caffè americano bollente. Il secondo, per quel susseguirsi di mattonelle bianche e nere che mi catapultano nella casa dei miei sogni. Il terzo, per il Baby Doll Kiss & Blush Duo Stick che trovo sul cuscino, e che già dal nome dichiara le sue velleità maliziose: colorare e divertire. Tingere e perfezionare. Labbra e guance.
La Mustang riparte alla volta dell’Art Share, galleria di arte contemporanea dove le opere sono appoggiate a terra, l’odore è quello della vernice fresca, le luci che abbagliano sono le stesse di ogni set fotografico: sotto i riflettori, c’è l’intera collezione primavera-estate Yves Saint Laurent. Con la seduzione dei Gloss Volupté nei toni dell’arancio e del fucsia come i graffiti che adornano ogni angolo di questa folle città, e le palette di ombretti e fard “The Street and I” (“La strada e io”), che racchiudono pigmenti e messaggi non troppo subliminali.
Lì faccio per la prima volta la conoscenza di Staz, delle sue chilometriche gambe avvolte in un jeans nero affusolato e di quei capelli magistralmente spettinati, che poche ore dopo saranno oggetto di confidenze. Londinese di nascita, ha il fascino di chi tratta la sua bellezza con un pizzico di trascuratezza: è selvaggia quanto basta, è rock senza eccessi.
Su sua indicazione, appuntamento da The Order Tattoo Parlour per incidere per sempre un piccolo cuore sacro sul polso destro. Il jet lag si fa sentire, ma la voce sporca di fumo di Misha Lindes (il fratello di Staz, anche lui rockettaro per nascita e indole) mi sveglia: da quel momento, un susseguirsi di note sempre più intense e di luci sempre più fioche all’interno del teatro dell’Ace, che sembra uscito da un film. D’altronde siamo a Los Angeles, ai piedi della collina di Hollywood e non potrebbe essere altrimenti.
La Mustang parcheggiata fuori ad attendermi è l’unica certezza di questa città dove tutto sembra durare solo un istante. Inafferrabile, ecco come. Tra le mani stringo un litro di tè al melograno, mentre mi lascio condurre verso una giornata di disintossicazione. Da queste parti la chiamano “Hangover cure” (“cura per il dopo sbronza”), e in genere inizia con una manicure: per me, due passate di La Laque Couture in Asphalt Grey.
Durante il pranzo, Staz mi confessa che adora truccare le labbra e compra solo vintage, che i capelli bisogna pettinarli poco e lasciarli liberi, che sogna di riuscire a rimanere sempre se stessa, che ha una piccola croce tatuata sul piede, che le piacciono gli aeroporti, che sentirsi a proprio agio nella propria pelle – qualunque essa sia – è la più grande forma di femminilità. L’insalata, l’acqua di cocco e le email in uscita mentre in Italia è quasi notte.
Prossima tappa, Venice Beach: gli occhi fissi sui piedi degli skater mentre volteggiano staccandosi da terra, il rumore del mare così vicino che lo puoi toccare. Un sentore di nostalgia: quella che mi assale sempre quando devo staccarmi da luoghi, persone, cose. La macchina va, lasciando dietro quel tutt’uno di cemento e sole che chiamano “la città degli angeli”. Gli angeli non hanno bisogno di ombra e tantomeno di normalità, forse per questo hanno deciso di fermarsi qui. Dove la strada incrocia l’oceano. Dove il cielo sa diventare cipria. Dove c’è spazio sconfinato, ma non per l’orizzonte. E dove tutto sembra possibile perché lo è.
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