Margherita Buy: Quando è ora di capire chi sei
In tv è un'attrice in crisi, al cinema una moglie che si confonta aspramete con la persona che ama. Margherita Buy è abituata a interpetare donne a un punto di svolta
Eccomi qua, sola, con il cane Matteo. La sua padrona, Margherita Buy, è in cucina a preparare il caffè. Un gesto di cortesia, ma anche di timidezza, credo. Dato che lei è volata via subito dopo avermi aperto la porta della sua casa romana. Aspetto. Matteo mi osserva perplesso. Io mi guardo intorno e penso che questa è la casa perfetta per una donna che fa l’attrice, ma nella vita vera non recita (almeno: non apparentemente).
Una che, a 55 anni, non nasconde né forza, né fragilità. Una che, mentre fa una cosa, ti guarda con l’aria di chiedere: «Va bene?».
Sempre con quel dubbio, per ogni suo gesto: dall’offrirti un bicchiere d’acqua al rispondere a una domanda complessa.
Va bene, va bene. Per quanto mi riguarda è tutto come deve essere. Il salotto con due finestre e due divani: semplice e accogliente. Il caffè: servito dentro a bicchieri scuri, accanto a una vecchia zuccheriera d’argento. I fiori un po’ sfatti sul tavolino, i libri messi a caso nello scaffale.
Margherita sorride, si siede. Matteo le piomba addosso e lei lo accarezza con tutte e due le mani. Si può cominciare. Dunque l’interrogativo nei suoi occhi prende la forma delle parole: «Oddio, che cosa devo dire?».
Non si preoccupi, fra domande e risposte, alla fine verrà fuori un racconto.
«Sì, ma da dove partiamo?».
Dalla sua parte pubblica, il lavoro. Che poi, a dire il vero, finisce con l’essere anche molto privata, visto i ruoli che lei si sceglie. Cito, non a caso, le sue ultime uscite. La serie tv In Treatment (dal 25 marzo su Sky Atlantic) e il film Piccoli crimini coniugali, diretto da Alex Infascelli, al cinema dal 6 aprile.
«Per una strana coincidenza in entrambi i ruoli ho come partner Sergio Castellitto, la persona ideale, uno con cui si lavora benissimo».
Nella serie tv, lui è l’analista, lei l’analizzata. Posso dire che, un po’, se la cerca, Margherita?
«Che cosa?»
L’etichetta. La sua fama di attrice vibrante, lievemente nevrotica, sempre sull’orlo di una crisi di nervi.
«E vabbè. In Treatment ha un testo bellissimo: sette puntate che diventano un percorso analitico. Sono sicura che non sia un ruolo scritto per me, perché è la traduzione di una serie americana.
Ma è come se mi fosse stato cucito addosso: un’attrice sui 50, che ha un ex marito, una figlia adolescente. Lei però non sta bene, ha vuoti di memoria, non riesce a ricordare il copione: va in analisi per capire perché. Naturalmente scopre che il problema è tutt’altro. Lei è una che nella vita è andata avanti come un treno veloce e adesso si accorge che deve fermarsi.
Non può più evitare di fare i conti con la sorella che sta morendo di cancro, la madre che se ne è già andata per la stessa malattia, la necessità di sottoporsi anche lei a un test genetico per capire quanto sia realmente a rischio. Per la prima volta deve obbligarsi ad affrontare la paura della morte e quella, ancora più insidiosa, della vita».
Le paure che hanno tutti, insomma.
«Sono domande che ti piombano addosso quando nella tua vita si spezza qualcosa. Quando senti una spinta radicale a cambiare. Tutti, prima o poi, arriviamo a un momento in cui ha senso fare bilanci. Ha presente l’età in cui hai bisogno di capire chi sei davvero? E vuoi avere conferme, certezze, per andare avanti. Almeno, a me succede così».
Le propongo un bilancio limitato: i suoi due ultimi lavori. Contenta di quello che ha fatto?
«Forse non li vedrò nemmeno».
Perché no?
«Non mi rivedo volentieri. Ho paura di non piacermi. Un timore inutile, fra l’altro, perché ormai quel che è fatto è fatto. Di solito aspetto che alcune persone di cui mi fido vedano il mio lavoro. Se mi dicono che sono andata bene, allora, magari, forse, provo a guardarmi anch’io».
A proposito di bisogno di conferme. Perché dobbiamo dipendere tanto dai giudizi degli altri?
«Non so. So solo che io faccio proprio così: prima tasto il terreno, chiedo conferme, poi affronto il mio giudizio»
Ha paura di scoprire qualcosa di sé rivedendosi?
«Quello mi succede già mentre recito. Ho cercato di interpretare questo ruolo e quello in Piccoli crimini coniugali lasciandomi travolgere dalle parole che erano, a volte, dolorosissime. Sempre intense. Sia la serie tv che il film di Infascelli hanno testi scritti meravigliosamente, testi che scavano».
Lei ha fatto molta analisi?
«Tutti quelli che hanno un mestiere come il mio la fanno o dovrebbero farla. Così come i medici e le tante persone che lavorano accanto al dolore. Non puoi maneggiare i sentimenti degli altri se non riesci a riconoscere i tuoi».
È stata in analisi solo per questioni professionali?
«No, anche per cose mie. Ma non sono fissata: adesso la uso solo ogni tanto come una medicina da prendere al bisogno. È un nuovo modo di concepire la terapia, una specie di supporto, quando serve. Uno spazio mio».
Entrare in un personaggio è una liberazione o una perdizione?
«È una cosa che ti dà una grande lucidità. Perché è uno sguardo diverso sul mondo e sulle persone. Quando reciti lasci la persona che sei e diventi un’altra. Quindi vedi tutto il tuo mondo in modo più distaccato, più dritto».
È anche un modo per scappare da se stessi?
«Oh, no. Recitare non è fuggire da sé, magari fosse così. È solo un modo per occuparsi anche di altro, ma tutti i lavori servono anche a questo, no?».
Piccoli crimini coniugali è un film girato interamente dentro un appartamento.
«È il luogo che svela, nasconde, accompagna, in una intera giornata, i due protagonisti: una moglie e un marito appena uscito dall’ospedale. Lui dice di non ricordare niente della sua vita. Insieme passano ore a dirsi cose che non si sono detti mai. Vanno da una stanza all’altra, in cerca di un oggetto, uno spazio che riaccenda i ricordi dell’uomo: i luoghi dei litigi, quelli della vanità, quelli dell’amore. L’appartamento è il terzo protagonista di questa storia».
Nel suo appartamento, Margherita, prevale il grigio: sulle pareti, i divani, gli stipiti, i cuscini. E anche lei, oggi, è vestita dello stesso colore.
«Mi rilassa. Lei preferirebbe il bianco? Io lo trovo inquietante. Ho scelto il grigio perché rende le cose uniformi, tutto diventa uno sfondo. Insomma, mi tranquillizza».
E poi a fare “casa” c’è Matteo, una vera certezza, mi sembra.
«Mi sta sempre addosso. È un po’ appiccicoso, ma va bene così. Non l’ho scelto, me lo sono trovato. Era un cagnolino che nessuno voleva, così l’ho preso io. Da nove anni è la mia ombra, se giro per casa ho paura di schiacciarlo, tanto mi sta fra i piedi».
Più impegnativo di un uomo. A proposito, le va di parlare d’amore?
«Chi, io? Non sono in grado, non lo so proprio trattare, mi ritroverei a dire solo ovvietà. Ma in fondo: chi se ne frega, dai».
L’amore è una questione importante.
«Sono negata per queste cose, vado in confusione. Do risposte brutte, vero?»
Non sto cercando la risposta perfetta, mi basta che sia vera.
«Io non rifletto mai sulle questioni di cuore, sono problemi che cerco di togliermi, su cui non voglio indugiare. Lei penserà: ma questa non sa parlare? Lo so, sono domande che voi giornalisti dovete fare, poverina anche lei».
Tranquilla. Non voglio rovinarle la giornata, mi sembra di gran buon umore, oggi.
«Vero. Vado a giorni. Oggi è tutto luminoso. Io non ho un comportamento sempre uguale, coerente. E a volte questa sensazione di provvisorietà mi dà la forza di fare tante cose diverse, altre volte può schiacciarmi. Ogni tanto mi illudo che la vita sia quieta: ben posizionata sui miei punti fermi. E invece so che non è vero niente: tutto può cambiare da un momento all’altro e diventare un’altra cosa».
Gli anni che passano aggiungono un po’ di corazza. Che dice?
«No, no, no, no. Io mi sento più esposta, invece. Sono una persona che ha sempre contato molto sulla propria forza fisica. Su questo fronte mi piace mettermi alla prova: e vincere. L’idea che questa forza mi mancherà col tempo, ogni giorno di più, mi agita tantissimo. Mi sono sempre sentita indistruttibile, so di non esserlo più e questo mi dà molta tristezza».
Presto, troviamo un “punto luce”, un motivo per sorridere.
«Guardi che io sono anche positiva. Sono una che non fa quasi niente, ma che pensa molto a tutte le cose che potrebbe fare. È una fantasia che mi tiene viva. Combino poco, ma ho un sacco di idee: viaggi che non comincerò mai, libri che non scriverò, sceneggiature che non firmerò. C’è una folla di intenzioni nella mia vita: mi fanno compagnia, mi piacciono. Penso sempre che ci sarà un poi e questo mi dà un sacco di forza e di tranquillità».
Molti suoi colleghi patiscono i periodi in cui non lavorano: vanno in ansia fra un film e l’altro. Hanno paura di non recitare più.
«Io no. Quando non giro, ho un sacco di cose da fare. Cose qualunque. Mi piace tanto la vita normale. Ho detto una banalità?».
Per niente.
«Quindi alla fine ho risposto quasi a tutto. Sì, insomma, ce l’ho fatta davvero».
Margherita si alza per accompagnarmi alla porta. Matteo rotola giù dalla poltrona, fino al tappeto, poi le saltella intorno, come da copione. Fino alle scale, dove lei mi saluta con un sorriso. Al prossimo racconto, dice.
© Riproduzione riservata