Jasmine Trinca, la cacciatrice di emozioni
Sul grande schermo Jasmine Trinca interpreta donne che combattono per quello che amano. Anche nella vita l’attrice si lascia guidare dai sentimenti. E ora che sarà nella giuria della 74ª Mostra del cinema di Venezia promette di premiare il film che la farà commuovere
Sua madre la chiamava Giàsmin, qualcuno la chiama Iasmìn, ma lei preferisce farsi chiamare Jasmine, alla francese. Poi c’è la piccola Elsa, che la chiama semplicemente “mamma”. È una bambina stupenda di 8 anni, con le guance rosse e la gioia di correre spensierata sulla spiaggia.
Jasmine Trinca è sull’isola di Tavolara, in Sardegna, dove si tiene Cinema Tavolara, la kermesse sostenuta da Sky Arte, proprio con sua figlia. L’anno che è appena passato è di quelli indimenticabili: la sua interpretazione di una parrucchiera decisa a non arrendersi mai, nel film di Sergio Castellitto Fortunata, le è valsa una sfilza di riconoscimenti, da quello come miglior attice nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes fino al Premio Julia Major ritirato a Ventotene (Latina).
Mi parla con il riserbo di chi non ama la prima fila, le luci della ribalta, i bagni di folla. Con la voce bassa, i capelli spettinati dal vento e lo sguardo dritto negli occhi mi confida addirittura un disagio: «Noi attori a volte soffriamo nel non sapere che percezioni abbiano gli altri del nostro lavoro. I premi, invece, ti nutrono: per settimane, dopo Cannes, ho sentito dentro di me un’euforia inattesa». Di fronte a un calice di vino bianco, l’attrice romana scoperta a 18 anni da Nanni Moretti mi racconta di essere pronta a volare a Venezia il 30 agosto per far parte della giuria della 74ª Mostra internazionale d’Arte Cinematografica accanto al regista Michel Franco e all’attrice Rebecca Hall.
Tra poco, a fine agosto, sarà giurata al Festival del Cinema di Venezia. È emozionata?
«Non è la prima volta che faccio la giurata in un festival, so che il primo momento di conoscenza con gli altri componenti è cruciale. Cerco ogni volta un collega che sia come un compagno di classe con cui fare comunella, discutere dei film, confrontarmi. Anni fa, al Festival di Cannes, non riuscivamo a stabilire un vincitore. Poi, proprio all’ultimo giorno, abbiamo condiviso le lacrime tutti per lo stesso film (California Dreamin’ del regista romeno Cristian Nemescu, presentato nel 2007, Ndr). Il senso di una giuria, come della vita stessa, sta sempre nella condivisione. L’unica cosa che posso dirle ora è che mi aspetto grandissimi film».
Le emozioni forti sembrano il filo conduttore della sua carriera.
«È vero, e si mescolano a quelle della mia vita. Poco prima di girare Miele, il film sui malati terminali di Valeria Golino, è scomparsa mia madre. È successo quattro anni fa e credo che proprio la perdita dello sguardo materno mi abbia dato un atteggiamento diverso nei confronti della vita».
La morte della madre può segnare un nuovo inizio?
«È una fase difficile, ma per me è stato un modo per riappropriarmi del rapporto con lei: al dolore subentra un profondo contatto spirituale. Il legame materno è viscerale, poco importa che sia stato più o meno conflittuale. Quando una mamma scompare dalla tua vista succede che riesci a riscoprirla in una maniera più profonda».
E questo come ha cambiato il suo sguardo?
«Il dolore si è trasformato in forza creativa. Mi sono sentita una nuova libertà addosso, mi sono tuffata in un’inedita strada interpretativa. Non voglio sembrare troppo seria, ma quando sai di essere senza rete e protezioni devi fare un pezzo di strada in più, ed è come un passaggio di stato. Non sei più figlia, eppure lo resti sempre. Oscilli tra la disperazione e il ricordo dolce, alla fine realizzi che perdere, paradossalmente, significa ritrovare. Incredibile, poi, quello che mi è successo nel lavoro: cinque giorni dopo la morte della mia mamma sono partita per girare un film in Amazzonia, Un giorno devi andare. È stata una fuga, con la sensazione che mia madre, che era uno spirito libero, mi abbia lasciato andare».
Ha smesso di essere figlia e nella realtà lei era già madre.
«Ricordo la nascita di mia figlia, Elsa, come il momento di maggiore felicità della mia vita. Sono stata attenta a non caricarle mai addosso le mie preoccupazioni. Pur con tutte le mie fragilità sin dall’inizio, grazie a lei, ho vissuto una rivoluzione. Mi sono sentita come una leonessa con il suo cucciolo: Elsa è diventata subito la mia priorità, senza deciderlo».
« Non ho mai sopportato gli attori che dicono: “Ah, io quello non lo faccio” »
Sullo schermo non sembra mai inibita. Penso al suo personaggio in Fortunata: come supera l’imbarazzo delle scene erotiche?
«Non ho mai sopportato gli attori che dicono: “Ah, io quello non lo faccio”. Certo, le scene di sesso non devono essere gratuite. Sto bene attenta che abbiano un senso. In Nessuno si salva da solo con Riccardo Scamarcio raccontavamo, anche fisicamente, il clima emotivo di una coppia. In Fortunata, con Stefano Accorsi, abbiamo mostrato il desiderio di amore di una donna come se fosse alla ricerca di una liberazione. Fuori dal set è diverso. Torno me stessa, mi imbarazzo per qualsiasi cosa. Il filtro del personaggio è tutto: quando mi spoglio in un film, è come se quella lì non fossi io».
Si piace rivedendosi sullo schermo?
«Non amo guardarmi, tendo a fidarmi del giudizio altrui. Se rivedo La stanza del figlio ritrovo la ragazzina selvatica che ero nel 2001: provo tenerezza. Ricordo il provino iniziale per il film. Con Laura Morante dovevo cantare il brano Insieme a te non ci sto più. Non conoscevo l’attrice e neanche la canzone: finì che cantai in playback, si sentiva solo la voce di Laura».
Il suo prossimo film sarà impegnativo: Sulla mia pelle del regista Alessio Cremonini racconta il caso di Stefano Cucchi, il giovane morto in carcere in circostanze ancora da chiarire. Ha già incontrato la sorella Ilaria che lei impersonerà nel film?
«Abbiamo parlato a lungo, certo. È una combattente. Come chi va in battaglia, Ilaria Cucchi ha una missione: vuole ricevere giustizia e riappropriarsi così della sua vita. Nel film niente sarà romanzato, non vedremo mai che cosa succede in quella cella, ma tutto lo racconterà. Ci siamo rifatti agli atti delle indagini, non raccontiamo il dopo. La stessa Ilaria che interpreto non è quella che conosciamo oggi: nel film è solo una ragazza che si trova a vivere nell’impossibilità di essere presente nel luogo della morte del fratello Stefano. È quello che ha ispirato il suo libro Volevo dirti che non eri solo. Sarà un film forte, rispettoso della vicenda. Da cittadina, mi sconvolge che in uno Stato di diritto sia potuta succedere un’atrocità del genere».
Sembra averci preso gusto a portare al cinema donne coraggiose, anche se vulnerabili.
«Cerco di restituire con il mio lavoro un’idea di femminilità piena di forza e dignità, mai svilente. Come la parrucchiera di Fortunata. Noi donne dobbiamo impegnarci in questo, oggi più che mai. Mi piace l’idea che le mie protagoniste siano donne vere, semplici, che diventano eroiche nel portare avanti la loro vita quotidiana».
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