L’attrice nata ad Haifa è diventata famosa interpretando una musulmana sexy e risoluta nella serie tv Tyrant. «Mi sono ispirata a donne come la regina Rania di Giordania», dice a Grazia. «Perché la vera bellezza è quella di chi non si accontenta di essere ammirata, ma passa all’azione»

Sono le 9 di mattina a Los Angeles (e le 18 in Italia) mentre mi collego via Skype con l’attrice modella israeliana Moran Atias, 35 anni, che vive nella città americana da otto anni. Capelli legati e viso al naturale, comunque sexy, è in piedi da un pezzo, ha già portato a spasso il cane e indossa una tuta da gin- nastica: finita l’intervista, andrà ad allenarsi in palestra per interpretare i nuovi episodi della serie d’azione 24: Legacy.
«Ci voleva un impegno di lavoro per costringermi a fare attività fisica», mi dice. «Pur abitando in California, dove tutti si preoccupano di essere in forma, sono piuttosto pigra». Ride, butta giù una sorsata d’acqua e a dire la verità non ho l’impressione di parlare con una persona portata all’ozio: modella dalla carriera decollata in Italia, attrice, ora anche produttrice, Moran mi racconta i suoi mille progetti perché, spiega, «sono sempre alla ricerca di nuove sfide».
Quella per cui ho deciso di intervistarla è la terza stagione di Tyrant, la serie ambientata in un immaginario e turbolento Paese arabo, in onda su Fox (canale 112 di Sky) dal 4 dicembre. Bella, elegante, avveduta, Moran interpreta Leila Al-Fayeed, moglie del figlio di un dittatore, tornato in patria dopo l’esilio negli Stati Uniti e costretto a fronteggiare intrighi, lotte di potere, tradimenti. «Ho chiesto agli sceneggiatori di dare più spessore politico al mio personaggio», mi racconta l’attrice. «E mi hanno ascoltata». Non mi sorprende: consapevole della propria identità e abituata a non prendere nulla alla leggera, Atias ama avere il controllo della sua vita e del lavoro.
Che cosa non andava nella prima versione del suo personaggio?
«Leila era seducente, chic, ammirata da tutti e soffriva per le infedeltà del marito. Ma non mi interessava inter- pretare una bella statuina o la vittima di un compagno fedifrago e ho preteso che il personaggio avesse una dimen- sione politica. Così è diventata una donna a suo agio con il potere, decisa a combattere per creare un futuro per il suo Paese e pronta a trovare la forza interiore per riuscirci».
Si è ispirata a qualcuno?
«Ho pensato alle donne che hanno esercitato un’influenza sul Medio Oriente e sono radicate nell’imma- ginario collettivo: la regina Rania di Giordania e l’ex sovrana Noor, ma anche la premier pakistana Benazir Bhutto (assassinata nel 2007, ndr). Hanno una forte personalità, ma anche attenzione al look».
E per una leader politica è importante l’aspetto esteriore? «Certo, non ci sono dubbi. Tutto quello che una donna indossa attira i media: ci avrà fatto caso, durante la campagna presidenziale americana facevano notizia le giacche di Hillary Clinton, non le cravatte di Donald Trump. E, una volta sotto i riflettori per i bei vestiti, una politica può far passare il suo messaggio».
Lei, ebrea israeliana, ha avuto diff icoltà a interpretare una musulmana?
«No, al contrario. Ho considerato il personaggio di Leila un grande onore, un regalo del destino. Mi ha permesso di esplorare un’altra cultura, una reli- gione diversa dalla mia, usi e costumi che non mi appartengono. E oggi sono felice di avere tanti fan in tutto il mondo arabo. Anche le donne mi scrivono riconoscendo il mio impegno. Il dialogo è possibile, bisogna cercarlo con ogni mezzo».
Torna spesso in Israele?
«Sì, infatti sono reduce da una visita- lampo. Ho mantenuto un forte legame con Israele dove ancora vive la mia famiglia e dove ho messo in piedi al- cuni progetti culturali. Il mio chiodo fisso è trovare un ponte tra ebrei e arabi. E sono convinta che la via più breve passi dall’arte e dall’educazione dei giovani».
È contenta di essersi trasferita a Los Angeles?
«Sì, rivendico la mia scelta. Se fossi ri- masta in patria avrei avuto una carriera limitata. All’inizio sono volata a New York, ma ho capito presto che il posto giusto era la California. Non mi sba- gliavo: qui ho molte più opportunità di lavoro, non mi fermo un momento. Dopo aver girato serie popolari come CSI: Miami e White Collar e collabo- rato alla realizzazione del film Third Person del regista premio Oscar Paul Haggis, ho preso gusto alla produzione e sto sviluppando diversi progetti».
Che parte ha in 24:Legacy?
«Sono un’ex donna soldato, maneggio fucili e bombe a mano. Al primo al- lenamento tremavo come una foglia: non avevo mai visto una pistola, in Israele non ho fatto il servizio militare perché ho avuto tre volte la meningite. Le ragazze americane non hanno pau- ra delle armi, che per me sono invece sinonimo di distruzione e morte. Pur essendo vissuta in un Paese in guerra, ho sempre odiato la violenza».
Non teme che il suo aspetto un po’ esotico possa limitarle opportunità di lavoro a Hollywood?
«No, credo invece che la mia diversità possa rivelarsi un’arma vincente. Ho un aspetto fisico gradevole, inutile ne- garlo, ma voglio metterlo al servizio dei miei progetti sia cinematografici sia umanitari: sono molto attiva anche nella raccolta fondi per la ricostruzione di Haiti e di recente ho organizzato un evento benefico che ha fruttato un milione di euro. La vera bellezza non si accontenta di venire contemplata dagli altri, ma passa all’azione».
Che cosa sogna per il futuro?
«Vorrei raccontare delle storie di ingiustizia, per aiutare i miei simili a vivere in un mondo migliore. È un’utopia ma io ci credo. Sul piano personale, spero di crearmi una famiglia».
Due anni fa ha avuto una storia con l’imprenditore Lapo Elkann, oggi ha un nuovo fidanzato?
«Può scrivere che sono single anche se questa parola non mi piace. Più il tempo passa e più mi sorprendo a desiderare un compagno e dei figli. Ma il lavoro oggi assorbe tutte le mie energie e l’amore non è una priorità. E questo mi dispiace tanto».
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