Marco Mengoni: E poi mi sono sentito speciale
Alla vigilia del lancio del nuovo album, Marco Mengoni ricorda quando il successo era molto lontano, tutto era più difficile e lui si nascondeva. Finché ha capito che avrebbe potuto accettarsi. E ha cominciato ad amare
anche il suo naso
È sempre difficile iniziare un racconto. Di solito ci metto un po’ a trovare l’idea giusta. Questa volta no: finita l’intervista a Marco Mengoni, lunga, generosa, piena di spunti, avevo addirittura l’imbarazzo della scelta. Avrei potuto dirvi come mi sono preparata a quest’incontro, facendomi incuriosire e contagiare dall’entusiasmo della mia collega Daniela, sua super-fan: «Vedrai, è un ragazzo speciale, delicato, un po’ d’altri tempi». Oppure avrei potuto cominciare con l’ultima cosa che Marco mi ha detto: «Ha visto le foto di moda che mi hanno fatto?». Poi mi ha mostrato una cornice dove erano appiccicate le immagini di questo servizio. «Sono bellissime». Ma alla fine ho pensato che quello che ha reso davvero unico questo incontro è stato ascoltare con lui, nel suo studio di Milano, i cinque inediti del nuovo album, Marco Mengoni Live, in uscita: due dischi con tutto il repertorio dal vivo. Vedere come si emozionava, sentirlo cantare sottovoce sopra la sua voce registrata, commentare insieme ogni pezzo. Sì, lo so, sono stata ancora più privilegiata di chi sta dietro le quinte del suo tour, adesso in giro per l’Italia, tutto esaurito quasi ovunque, e che dal 6 dicembre sbarcherà in nove città europee, da Francoforte ad Amsterdam, da Zurigo a Varsavia.
Per chi non lo sapesse, Marco Mengoni è uno che non si accontenta mai. È soddisfatto del suo nuovo album?
«Diciamo che lo sono al 70-80 per cento, che per me è tantissimo. La verità è che quando sei sul punto di chiudere l’album, hai già voglia di stravolgere quello che hai fatto fino a quel momento perché mentre arrangi il disco, vivi, evolvi, cambi e ti vengono nuove idee».
Ci rivela un aspetto sorprendente di questo album?
«In alcuni brani inediti c’è molto soul. Magari è l’inizio di un nuovo progetto nella direzione “black”».
Abbiamo ascoltato insieme la canzone Proteggiti da me.
Nel testo parla di rimorsi. Lei ne ha?
«Sì. A volte non so fermarmi, capire che cosa mi sta succedendo. È come se mi scordassi di vivere. Chi fa il mio mestiere non ha una vita normale. Eppure io ne ho bisogno e combatto per averla. Ho la necessità di uscire la mattina, fare una passeggiata, la spesa, andare in un posto affollato, come tutti gli altri».
Che cosa la emoziona di più?
«Questo lavoro ti fa vivere a mille. Sul palco c’è un’energia pazzesca che penetra dentro. Poi quando torni a casa tutto sembra più piccolo e rischi di sminuire la quotidianità. Invece devi razionalizzare, chiederti: “Da che parte voglio stare?”. Pian piano capisci che vivi in due mondi diversi e anche la vita “normale” emoziona».
In che modo, per esempio?
«Sono il confessore di tutti i miei amici: mi chiedono consigli. Li ascolto, perché ho fame di esperienze, parole, racconti. So che, prestando attenzione agli altri, aiuto anche me stesso».
La musica le trasmetteva molta energia anche prima di raggiungere il successo?
«Sì, l’energia ti arriva comunque, anche se suoni ai matrimoni, come facevo da ragazzo. Ho iniziato a fare musica in modo un po’ inconsapevole, iscrivendomi a uno stage al Tuscia In Jazz Festival. Non avevo una grande cultura musicale, avevo ascoltato a malapena Summertime di Ella Fitzgerald: a 14 anni non sapevo nulla».
Lo stage era un regalo dei suoi genitori?
«No, l’ho pagato con i soldi che ho risparmiato lavorando nel bar di alcuni amici di famiglia. Ho iniziato a 14 anni: mi è servito, perché “Marco piccolo” faceva fatica a vivere in società. Mi sono messo alla prova e, con i soldi, ho comprato un computer, le casse, un software per crea-re musica e, dopo qualche anno, mi sono trasferito a Roma dove ho cominciato a lavorare in uno studio di registrazione come fonico».
La sua mamma era d’accordo che lei avesse un impiego a 14 anni, durante il tempo libero?
«Sono figlio unico e voleva che studiassi, che fossi il più bravo della classe. In realtà lo ero, frequentavo l’Istituto d’arte, ero anche l’unico ad avere 10 in condotta, ma forse le mamme ci vedono più fragili di quello che siamo».
Magari i suoi genitori volevano che lei avesse una vita diversa dalla loro.
«Forse sì, mia madre ha iniziato a lavorare da giovane nel negozio di abbigliamento di famiglia e anche mio padre ha cominciato presto. Ma forse anche no, altrimenti il mio papà, quando gli ho detto che volevo andare a vivere a Roma, non mi avrebbe mai detto: “Esci pure da casa, la scelta è tua. Ma io non ti mantengo”».
È stato coraggioso ad andarsene.
«Sì, ma ho fatto la fame per molto tempo: la sera lavoravo in un pub a Frascati, perché da fonico non riuscivo a guadagnare abbastanza».
Crisi o non crisi, ha guadagnato abbastanza per comprare una casa a Milano.
«Sì, ma l’ho acquistata con il mutuo».
Chi ha intuito per primo il suo talento?
«Il mio amico Gabriele, che adesso lavora in Marina. Un giorno facevamo il karaoke e lui mi ha detto: “Guarda che non sei niente male”. Lui suonava la batteria nel mio primo gruppo, che si chiamava The Brainless, “I senza cervello”. Io ero alle tastiere. Avevo iniziato a prendere lezioni di pianoforte, ma dopo qualche mese ho smesso: il solfeggio era troppo noioso. Però avevo capito come si facevano gli accordi: è una questione matematica».
Con il suo gruppo avete avuto successo?
«Volevamo vincere a tutti i costi un concorso musicale organizzato nel mio paese, Ronciglione, provincia di Viterbo. Gareggiavano quattro band. Noi cantavamo The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd dove c’è una corista che urla come una pazza. Io la imitavo e suonavo anche le tastiere. Siamo arrivati ultimi».
Fisicamente, com’era da adolescente?
«Un’altra persona. Ero un mangiatore seriale di Nutella: una volta ne ho divorato tre chili in una settimana. Ho avuto talmente tante coliche che sono finito anche in ospedale».
Il video di una delle sue canzoni più amate, Guerriero, racconta la storia di un bambino vittima di bullismo. Lo è stato anche lei?
«Proprio bullizzato no, ma ognuno di noi ha assorbito un po’ di negatività a scuola: c’è sempre un gruppo che ti emargina. Da piccolo ero un solitario».
Per avere più fiducia in se stesso, a chi si è appoggiato? «Quando sei piccolo, è difficile ascoltare i genitori. I tuoi complessi puoi capirli solo tu. Io mi vergognavo, per esempio, di uscire con gli occhiali da sole: mi sembravano troppo estrosi. Se mia mamma mi diceva: “Stai bene”, oppure: “Non metterti i maglioni della taglia XXL”, non le davo retta. Il problema era solo nella mia testa, nell’accettazione del mio corpo. Mi coprivo tutto, con sciarpe e capelli lunghi».
Ha un naso bellissimo, ma da adolescente non le piaceva. Ha avuto bisogno del suo “esercito” di fan per capire che lei è davvero un bel ragazzo?
«No, ci sono arrivato prima. Avere complessi fa parte dell’essere umano. Inizi ad accettarti quando capisci che nel mondo non c’è nessuno come te: sei speciale, unico. E adesso il mio naso mi piace».
Nel 2015 è stato premiato al Senato come personaggio con maggior “Sentimento Positivo” dal Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Nei testi delle sue canzoni parla spesso della forza e della fragilità nei ragazzi. È diventato un simbolo per molti giovani. Che effetto le fa?
«Ogni tanto mi viene un po’ d’angoscia: è come se tutti si aspettassero da me messaggi importanti. Mi chiedo: “E se sbaglio qualcosa?”. In realtà sono solo me stesso, non sto fingendo di essere una buona persona. Certo, anch’io ogni tanto bevo qualche bicchiere di vino e mi diverto con il burraco».
Burraco? Gioca a carte?
«Sì, spesso, con i miei amici. E chi perde deve fare qualcosa di stupido: entrare in un negozio e urlare alla cassiera: “Sei una matta”, o girare nudo in strada. In realtà non lo fa nessuno perché scegliamo penitenze troppo assurde».
È vero che le piace anche cucinare?
«Sì, mi rilassa molto. Ogni tanto organizzo cene a tema. Ne ho dedicata una al colore verde e il menu era tutto a base di pistacchio, dai supplì alle cotolette. Ho imparato da piccolo perché mio nonno paterno aveva un caseificio e un orto: preparavamo le verdure insieme. Ora faccio fare a mia nonna Jolanda dei video tutorial che lei manda via chat a tutti i nipoti. Viviamo a Milano in tre: io, mia cugina Claudia, che lavora con me, e Giulia, arrivata un mese fa a casa mia con il fidanzato. Il mio appartamento è un porto di mare: non so stare da solo. Lo sono stato per troppo tempo».
In famiglia, comunicate sempre via chat?
«Sì, spesso, io con il telefono non ho un buon rapporto. Devo averlo ereditato dalla mia famiglia. Quando mi chiama mia nonna, mi fa aspettare mezz’ora alla cornetta: invece di salutarmi, continua a parlare con mia zia. Ai messaggi ogni tanto rispondo, ma spesso con tre giorni di ritardo».
Per sua nonna, lei è ancora “il nipote che lava i piatti”?
«Vengo da una famiglia matriarcale: mio nonno è mancato molto giovane e la nonna ha tenuto in mano le redini di tutto. Le donne sono sempre state le più forti, quelle che prendono decisioni, mentre gli uomini aiutano. Le mie cugine stanno a tavola, io sparecchio e pulisco i piatti. Ma non mi dà fastidio».
Torniamo alla musica: il video di Sai che l’avete girato negli Stati Uniti, attraversando cinque Stati, 4.000 chilometri in camper. Com’è stata questa esperienza?
«Incredibile. Mi sono trovato in mezzo a un deserto di sale, completamente solo, lontano da tutto, con un drone che mi filmava. Ho pensato tanto, urlato nel silenzio. Se la vacanza è staccare, scoprire luoghi nuovi, quel viaggio lo è stato, anche se stavo lavorando».
“Eravamo felici con poco”, dice il testo. Le capita spesso?
«Non proprio, perché io pretendo tantissimo da me stesso e dagli altri, non mi basta mai poco. Per me la felicità è vivere un’emozione fino in fondo, torturandosi nel sentimento».
Nei suoi testi spesso parla della perdita di un amore. Perché?
«Innamorarsi è bellissimo, ma la parte più interessante di un rapporto è quando finisce: c’è l’angoscia, ma anche l’inizio di un nuovo te, una rinascita. Perché, dopo il naufragio di un amore, sei più consapevole, hai imparato molto di te».
Mi tolga una curiosità: lei sul dito medio ha un tatuaggio a forma di croce. Che significato ha?
«Appartiene a un momento. Magari un giorno ci prendiamo un tè e glielo racconto, ma non ne parlo in un’intervista».
La vita privata di Marco Mengoni sarà sempre inaccessibile?
«Se mi chiede perché in una canzone parlo di una mia sofferenza, le rispondo perché riguarda il mio essere musicista. Non m’inoltro, però, nelle mie vicissitudini personali. Sono un ragazzo che crede negli esseri umani, ma so che alcuni non hanno abbastanza sensibilità per capire. La vita privata ce l’ho, ma fa parte di me».
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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli
La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.
Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.
Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.
È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».
Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.
Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.
Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.
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Grazia è in edicola con Maya Hawke
Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.
Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.
Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.
Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.
Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.
E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.
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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
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