Marco Bianchi: «Con mia figlia, tra biciclette e guacamole»

Lo chiamano lo chef scienziato, perché riesce a rendere invitanti ricette sane in grado di stimolare le difese immunitarie. Marco Bianchi, 46 anni, da ricercatore di Oncologia molecolare presso la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro a cuoco per passione, oggi è un divulgatore scientifico che promuove i fattori protettivi della dieta e le regole della buona alimentazione per la Fondazione Umberto Veronesi.
Ha scritto numerosi libri, anche sull’importanza dell’attività fisica come Io mi muovo (Mondadori), e sta ultimando un nuovo volume che è dedicato a chi vuole avvicinarsi alla natura.
Quando ha scoperto che le piaceva vivere in campagna?
«Durante il Covid. E da due anni e mezzo ho realizzato il mio sogno. Ho aperto un locale nel piacentino, a Gazzola frazione Rezzanello: si chiama Al Torrazzo Home Restaurant. È diverso da un agriturismo: io apro in maniera saltuaria a un numero limitato di ospiti. Lì sono il cuoco, non uno chef: è qualcosa di più casalingo, con 35 coperti al massimo».
Che cosa si mangia?
«Lì si mangia alla Marco Bianchi. È un menù totalmente vegetale, persino il formaggio ha il caglio vegetale, le uova sono della mia vicina ed è tutto a chilometro zero. Il menù è ponderato e cambia ogni mese: agli ospiti racconto tutto delle 12 portate che preparo. Da me il pranzo o la cena durano due ore e mezza. Ultimamente è tutto dedicato agli alimenti probiotici e spiego che cos’è il microbiota».
Da dove nasce la sua passione per la cucina?
«Dal mio nonno materno. Abitava vicino a casa nostra, e fin dall’età di 6 anni lo vedevo sempre ai fornelli. Mi piaceva così tanto che a 10 anni ho detto: “Basta, cucino io”. Verso i 13 anni ho iniziato a essere in sovrappeso, perché mangiavo male. Era il boom dei piatti pronti, delle merendine, dei risotti pronti liofilizzati. All’epoca non eravamo così attenti, nemmeno i produttori lo erano. A lungo andare avevo la pancia e non mi vedevo più i piedi. Un giorno scoppiai a piangere. Per mia madre e per la pediatra andava tutto bene, ma il mio punto di riferimento assoluto era mia sorella, campionessa di nuoto a livello nazionale, che faceva sport tutti i giorni, aveva un’alimentazione controllata. Io non facevo tanto sport ed ero deriso. Ho un ricordo molto negativo per ogni sport che ho provato perché c’era sempre il cretino di turno che mi metteva all’angolo o mi riempiva di calci. Così ho deciso di seguire la dieta di mia sorella. A colazione yogurt e cereali integrali o fiocchi d’avena. Poi ho iniziato a correre e nuotare. Oggi vado anche in bicicletta e a mia figlia cerco di dare buoni insegnamenti. Oggi è vegeteriana, cuciniamo spesso insieme e il suo guacamole è migliore del mio. La salute dei nostri figli dipende molto da noi».
Come si è avvicinato al mondo della prevenzione del cancro?
«Ho studiato per diventare tecnico di ricerca biochimica perché fin da piccolo mi incuriosiva ogni tipo di muffa o batterio. Sono cresciuto a Milano, ma in contatto con la natura. Scrissi una mail al professor Umberto Veronesi per proporgli un progetto tra alimentazione e prevenzione».
Qual è la sua ricetta del cuore?
«La pizza, con la ricetta della salsa del nonno. E poi i pizzoccheri a modo mio, con più verdura, olio e crescenza. Per questa ricetta sono stato massacrato dall’Accademia del Pizzocchero. Ma la mia è più sana».
Foto: GAIA MENCHICCHI
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