Alicia Vikander: “Non mi ferma più nessuno”

A 15 anni è andata a vivere da sola per studiare danza. A 18 si è iscritta a legge per diventare produttrice cinematografica. A 23 ha imparato il danese per avere il ruolo che voleva in un film. E oggi, che ne ha 26, è la diva del momento e una musa di stile. L’attrice svedese racconta a Grazia le sue mille vite e svela il nome dell’uomo che le ha toccato il cuore (no, non è il fidanzato Michael Fassbender)
Minuta, viso luminoso dai grandi occhi scuri, l’attrice Alicia Vikander entra in punta di piedi nel salottino dell’hotel londinese dove la sto aspettando e mi stringe la mano. «Qui potremo chiacchierare tranquille», mi dice. Indossa un abito Louis Vuitton di seta celeste a ramages in tinta e maniche lunghe (è ambassador della casa di moda), ha i tacchi alti e non porta gioielli. Malgrado il suo stile discreto, ha una presenza che s’impone. Comincio a capire perché l’attore e sex symbol Michael Fassbender, suo fidanzato da quasi un anno, abbia perso la testa per lei: svedese, 26 anni, Alicia non è soltanto una bella ragazza e la giovane attrice più richiesta del momento, con una lunga serie di film in uscita e un futuro sempre più solido nello star system. Vista da vicino, dà un’idea di fragilità, ma anche di consapevolezza. Soprattutto sa che cosa vuole dalla vita e dalla carriera. E adora le sfide.
Per darvi un’idea: ad appena 15 anni ha lasciato la madre (è figlia di separati) a Göteborg, nel sud della Svezia, per andare a vivere da sola a Stoccolma e studiare danza classica. «È stato un periodo molto formativo, ho imparato a gestire una casa e a prendermi cura di me. Ma ho dovuto abbandonare il balletto perché sono stata operata a un piede e ho avuto seri problemi alla schiena che ancora mi tormentano», racconta. Altra prova di volontà: nel 2012, Alicia impara il danese in otto settimane per ottenere il ruolo della regina Carolina Matilde innamorata del medico di corte (l’attore Mads Mikkelsen) nel dramma storico A Royal Affair, che l’avrebbe lanciata a livello internazionale.
Insomma, malgrado l’aspetto delicato, Alicia è una ragazza tosta. Cominciamo a parlare dei suoi studi di Giurisprudenza: «Pensavo fossero la base giusta per diventare produttrice, poi mi hanno scritturata come protagonista di un film svedese, Pure, e la mia carriera ha preso una strada diversa». Racconta dei genitori che l’hanno sempre appoggiata (il padre fa lo psichiatra, la mamma è attrice) e della sua nuova vita a Londra, dove tre anni fa ha comprato un appartamento.
Dopo aver girato A Royal Affair, la carriera di Alicia è letteralmente esplosa e lei non si è fermata un momento. Nei prossimi mesi usciranno sei suoi film. La incontro a Londra per il primo, nelle sale dal 3 settembre: la spy-story Operazione U.N.C.L.E., diretta da Guy Ritchie, l’ex marito di Madonna, che si svolge negli Anni 60 in piena Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’attrice interpreta un meccanico sexy e intraprendente che, tra inseguimenti e colpi di scena ambientati in Italia, passando dalla tuta sporca di grasso ai tubini glamour in stile Audrey Hepburn tiene testa sia all’agente della Cia Henry Cavill sia allo spione del Kgb Armie Hammer, coalizzati per difendere il mondo dalla bomba atomica.
Tra qualche giorno la vedremo anche alla Mostra del Cinema di Venezia nel film A Danish Girl di Tom Hooper, nel ruolo della moglie del primo transessuale della storia, il pittore danese Einar Wegener diventato negli Anni 20 Lili Elbe (interpretato dall’attore premio Oscar Eddie Redmayne: ne parliamo anche a pagina 176). Poco dopo, Vikander sarà sul set del nuovo capitolo della saga Bourne, accanto a Matt Damon. «Per convincermi che non stavo sognando, negli ultimi due anni ho dovuto pizzicarmi il braccio non so quante volte», sorride Alicia.
Invece è un argomento tabù l’amore con il 38enne Michael Fassbender, esploso l’anno scorso sul set di The Light Between Oceans, una storia romantica di sapore dark ambientata in un faro in Australia. Da allora i due attori sono inseparabili e non fanno nulla per nascondere la passione. I paparazzi li hanno fotografati in ogni parte del mondo: mentre si baciano a New York, surfano sulle onde in Australia, sul red carpet del Festival di Cannes, al Gran Premio di Montecarlo, a Londra.
Come vive questa attenzione nei suoi confronti?
«È talmente esagerata che rischia di sopraffarmi. Pensavo di essere preparata, invece ho scoperto che non lo sono affatto. Mi ritengo fortunata perché giro un film dietro l’altro e sto diventando sempre più famosa ma, mi creda, la persecuzione dei paparazzi è l’aspetto più duro da digerire della mia nuova vita».
Come definirebbe il momento che sta attraversando?
«Direi che è surreale. Non mi aspettavo che mi capitassero tante cose belle tutte insieme. Lavoro con registi importanti con i quali soltanto qualche anno fa non avrei nemmeno immaginato di potermi trovare a tu per tu nella stessa stanza. Ora escono tanti miei film e mi domando se la gente finirà per stancarsi della mia faccia».
Perché ha accettato la parte in quello di Guy Ritchie?
«Da ragazza ero una fan e andavo a vedere i suoi film di nascosto perché i miei me li proibivano: li ritenevano troppo spregiudicati».
« "Ho girato A Royal Affair perché mio padre si era innamorato della storia" »
È vero che prima di accettare un ruolo sottopone la sceneggiatura ai suoi genitori?
«Sì, mi fido molto del loro parere. Ho girato A Royal Affair perché mio padre si era innamorato della storia. I miei si sono separati quando ero piccola, ma hanno mantenuto rapporti affettuosi e oggi ho con loro un bellissimo legame. Ci parliamo continuamente, anche se viviamo in Paesi diversi ci colleghiamo via Skype e ceniamo insieme così».
Pensa di avere qualcosa in comune con Gaby, la protagonista di Operazione U.N.C.L.E.?
«Anch’io sono una donna forte, indipendente, decisa a seguire la mia strada. All’inizio, tuffata nel cofano di un’auto, Gaby sembra un tipo mascolino, ma poi rivela tutto il suo fascino. E pensare che io non ho la patente. Per girare una scena spettacolare in cui appaio al volante ho dovuto imparare a guidare in un giorno».
Che rapporto ha con la moda?
«A 13 anni ammiravo gli abiti da favola sulle riviste e non avrei mai immaginato di diventare un giorno ambasciatrice di Louis Vuitton. Quando ho incontrato Nicolas Ghesquière, il direttore creativo della maison, ho capito che la moda può essere una forma d’arte. O meglio, un viaggio che fa scoprire il carattere delle persone».
Mi spiega meglio che cosa intende?
«Al mattino, quando mi sveglio, vedo il mondo bianco o nero: è il mio lato scandinavo. La moda m’insegna a percepire le sfumature, i colori dei miei stati d’animo. E da Ghesquière ho imparato a vedere cose che non avevo mai visto prima».
In che cosa si sente ancora scandinava?
«Amo molto la natura, gli spazi aperti, il cibo e le piccole cose che mi ricollegano alla mia cultura. Rimpiango le casette rosse delle isole svedesi, le conchiglie abbandonate sulla spiaggia. Diventi consapevole delle radici solo quando lasci il tuo Paese e ogni ricordo ti sembra terribilmente romantico. Oggi, a Londra, potrei riconoscere un mio connazionale svedese a un chilometro di distanza. Sono convinta che gli scandinavi diventino creativi per reagire al grande freddo».
Vista la piega che ha preso la sua carriera, prima o poi andrà a vivere a Hollywood?
«Non ci penso proprio. Non ho nulla in comune con la cultura americana. Mi riconosco, invece, nel senso dell’umorismo e nella leggerezza dell’Europa. A Londra mi sento a casa. La prima volta che ci sono venuta, qualche anno fa, dividevo con due dj svedesi e un’amica un appartamentino pieno di topi».
Le attrici americane rivendicano ruoli da protagoniste e la stessa paga degli uomini: condivide queste battaglie?
«La consapevolezza di genere sta cambiando le regole del cinema. Piano piano, anche nei film commerciali, si fa strada l’idea che il ruolo principale possa essere affidato a una donna. Il femminismo è un fatto concreto con cui bisogna ormai fare i conti».
Il successo l’ha cambiata molto?
«Sono maturata, ho accumulato tanta esperienza e oggi mi sento molto più sicura. La mia vita ha preso a girare a velocità supersonica, ma le assicuro che non sono cambiata. Ho le stesse amiche che avevo a 15 anni e mi piace ritrovarle quando torno in Svezia».
So che non vuole parlare della sua relazione con Michael Fassbender, ma mi dica com’è stato lavorare con lui.
«Sul set mi ha incoraggiata in ogni modo, mi ha spinta a tirare fuori il meglio di me. Non ho frequentato una scuola di recitazione, vengo dal balletto e devo imparare le cose in un altro modo».
E che effetto le ha fatto recitare con Eddie Redmayne?
«La sua trasformazione da uomo a donna nel film A Danish Girl mi ha lasciata senza parole. Ha una sensibilità che toccherà il cuore di tutti. Intanto, sul set, ha già toccato il mio».
Che cosa vede nel suo futuro?
«Il mio mestiere è imprevedibile. Per ora non faccio piani e vivo l’entusiasmo del momento. Spero di continuare a innamorarmi perdutamente di ogni ruolo».
Fassbender se ne faccia una ragione, dovrà dividere Alicia con il cinema. E a guadagnarci saremo soprattutto noi spettatori.
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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli
In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.
Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.
Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».
Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.
L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.
La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».
Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.
In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».
La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.
Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».
Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.
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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.
“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.
“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.
La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.
Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.
E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.
Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski.
Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.
Anche il rapporto tra arte e cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.
Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.
Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.
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