Elisa Lipari: Non c'è 'good girl' senza un po' di imbarazzo


Se esiste una costante in tutti i sentimenti più o meno amorosi che ho provato è la fantasia che ho lasciato ricamare intorno alle persone.
Non scrivo questa frase senza pressione – o senza immaginare lo sguardo con un pizzico di giudizio della mia psicoterapeuta – perché il confine tra idealizzazione e fantasia è sottile, ma non posso negare sia una componente vitale di ogni mia infatuazione. A volte ho immaginato situazioni che poi avrei vissuto, come se così facendo potessi confermare di avere il controllo; altre volte è stato un modo per ingannare l’ansia di quello che sarebbe poi successo. Altre volte ancora fantasticare mi serviva per capire se quella persona mi piacesse davvero, come se, per una convinzione monolitica priva di fondamenta, se posso immaginare un ragazzo avvicinarsi a me e baciarmi con passione allora nella mia testa significa che quella cosa può succedere. Fonte: nessuna. Conferma: nessuna.
Ci sono fantasie che sembrano essere fatte per essere solo immaginate. Alcune sai essere mosse da un sostrato di interesse, altre hanno senso di esistere solo in una sera di Novembre, con la cuffing season alle porte che fa sì che un banale incrocio di sguardi si trasformi in una fanfiction a tema slowburn di minimo diecimila caratteri (contati con precisione nella mia mente).
Se c’è una cosa che mi sembra di aver capito è che il lavoro è la Terra di Mezzo delle fantasie.
Su TikTok, a intervalli regolari, mi escono video agli antipodi dello spettro. Da una parte ne vedo alcuni dove late Millennials e Gen Z ironizzano su tutti gli escamotage che ogni giorno elaborano per rendere il lavoro meno lavoro: smartworking, quite quitting, un lingo irriverente che non ha più paura della sacralità del lavoro e delle sue gerarchie. Guardo questi video e mi dico che dovrei imparare qualcosa dalla ragazza che durante una call era a farsi le unghie e, una volta che le viene fatto notare che il suo comportamento non fosse adeguato, lei risponde che sta lavorando e riesce anche a farsi la manicure, mostrando in camera le unghie a mandorla nuove di pacca.
Dall’altra parte, nel versante di chi cerca un motivo per andare a lavoro, in un video un ragazzo dice che nulla lo sprona ad andare a lavorare come l’avere una work crush. Mi soffermo su un commento trovato sotto, dice: la cotta a lavoro è l’unico modo per sopravvivere. Il commento ha cinquantamila like, chi sono io per non aggiungere un cuore a questo aforisma virtuale?
In questo dualismo confuso e pieno di contrasti è perfetta l’uscita al cinema di Babygirl, nuovo film della regista Halina Reijn che sembra aver preso questa tendenza all’immaginazione e l’algoritmo di molti su TikTok e aver detto: adesso a voi ci penso io.

Nicole Kidman e Harris Dickinson in Baby Girl
Romy, interpretata da una Nicola Kidman indomita, è un’importante CEO di un’azienda che si occupa di logistica e automazione. Ha un matrimonio felice, due figlie adolescenti che – come tutte le figlie adolescenti – un po’ le vogliono bene e un po’ la deridono, ma la sua vita pare soddisfacente. Appagata e ricca di emozioni sembra essere anche la sua vita sessuale: a letto con il marito – Antonio Banderas – Romy geme e si dimena, sembra felice, sembra ricevere tutto ciò che desidera. Se non fosse che poi sgattaiola fuori dal letto, si sdraia supina in sala per masturbarsi da sola, guardandosi un porno.
Ed è in questo quadretto apparentemente perfetto che si insinua Samuel – interpretato da Harris Dickinson – uno stagista intraprendente che sembra intuire che dietro la corazza della CEO potente e determinata un altro fuoco accende Romy: il fuoco della sottomissione. Il mondo lavorativo in Babygirl è per lo più un contorno tematico intrigante per chi su TikTok si salva i video “cinque segnali per cui piaci al tuo collega” ma non si focalizza poi davvero sul brivido di una cotta o relazione tra le scrivanie dell’ufficio bensì sul cortocircuito tra il potere che Romy ha e il potere al quale desidera sottomettersi a letto.
Una volta intuito l’interesse reciproco e lasciati fuori dalla porta i dubbi sulle interferenze lavorative, ci addentriamo in camere d’albergo più o meno lussuose dove i due sperimentano questo nuovo rapporto. La danza che avviene tra Romy e Samuel non è fluida, lineare: la fantasia che la campagna di lancio del film aveva venduto forse ha fatto credere che avremmo visto una versione più coraggiosa e concreta di 50 Sfumature Di Grigio; il protagonista principale di Babygirl è invece l’imbarazzo: Samuel non sa davvero dominare e Romy non riesce subito a lasciarsi andare a una sua stessa fantasia.
Parlando con un amico la sera dopo il film mi ha detto di aver trovato estremamente cringe le scene di sesso e di sottomissione. La prima volta la coppia di amanti non sa davvero quello che sta per fare, non conosce le regole e i confini del gioco: Samuel impartisce ordini a caso e poi ride di se stesso e della situazione, ordina a Romy di mangiare una caramella e poi sputare, lei vuole obbedire ma poi si tira indietro, viene e subito dopo piange, tra le braccia del suo dominatore.
La scena non è quella che ci aspettiamo se pensiamo a un rapporto di sesso e potere, ma non è forse imbarazzante il sesso stesso, quando si decide di sbilanciarsi in territori inesplorati? Non è forse imbarazzante rileggere i propri messaggi inviati la sera prima in una arrabattata sessione di sexting con qualcuno con il quale non nominerai mai più quanto scritto? Non è forse imbarazzante il contrasto tra quello che immaginiamo sarà il sesso e quello che poi a volte finisce per essere?

Se Babygirl è imbarazzante lo è coscientemente, perché inserisce nel disegno complessivo anche le scene che escludiamo quando fantastichiamo su qualcuno, dimenticandoci fuori dall’inquadratura l’impaccio che accompagna a braccetto il sesso e le sue fantasie. Non è il nuovo Secretary ma non aveva neanche intenzione d’esserlo: se nel film del 2002 di Steven Shainberg una giovanissima Maggie Gyllenhaal riassume perfettamente quella che è la fantasia di una fantasia, la Romy di Babygirl svela che dietro l’immaginazione di una sottomissione c’è molto di più oltre alle sculacciate sulla scrivania.

Maggie Gyllenhaal nel film Secretary
Questo non significa però che Babygirl sia riuscito in ogni suo aspetto. È un film che rimane vittima della sua stessa intenzione, l’idealizzazione e le sue aspettative tradite. Ha fantasticato sulla sua stessa fantasia fin dal lancio e il film stesso poi non sembra reggere il peso della sessione di sexting che aveva intrapreso con i trailer e le aspettative promesse. Come le cotte in ufficio, sarebbe stato meglio se fosse rimasto solo una pruriginosa fantasia.
Dopo il turbinio erotico dei due amanti il film infatti si affretta a finire, a distruggere l’idillio creato dalla chimica tra Dickinson e Kidman, precipitando da un tema all’altro e lasciando intuire al pubblico femminile – e solo a quello femminile – una pila di domande pronunciate sottovoce che rimangono però senza risposta. Perché siamo donne indipendenti e con una ferrea etica lavorativa, ma ci tremano le gambe a immaginare qualcuno che ci piace che ci dice quello che dobbiamo fare, in una fantasia più stucchevole degli Harmony che legge nostra zia? Come si concilia la voglia di essere sculacciata con la voglia di far carriera, di essere considerata al pari di tutti? Come dobbiamo trattarlo questo potere, che vorremmo distruggere e abolire e poi ci intriga quando ci sfiora? In quale territorio possiamo prenderci una pausa e semplicemente fantasticare, lasciar andare la fantasia e sognare scenari che ci sembrano incompatibili con i nostri valori? E se vogliamo fantasticare su scenari che ci piegano, è sempre colpa della nostra maledetta infanzia? In questo caso il film risponde e, deludendomi, risponde di sì. Ed è esattamente in questi anfratti di pensiero che Babygirl si insinua, lasciando a noi l’eco di una domanda senza risposta.
Uscita dalla sala ho pensato molto al film e alle sue fantasie, soprattutto perché si stava avvicinando il momento della verità, la prova più ardua: scegliere che voto dargli su Letterboxd, impresa per me titanica avendo a disposizione solo una scala che va dall’uno al cinque. Mentre camminavo e riflettevo, riflettevo e camminavo, mi sono fermata a comprarmi una maglietta di Snoopy che avevo adocchiato giorni prima e desideravo come fino a venti minuti prima desideravo che qualcuno mi dicesse “good girl” sottovoce, passandomi accanto, magari a lavoro. Non contenta di questo repentino cambio di desiderio, mentre camminavo e riflettevo e riflettevo e camminavo ho aperto distrattamente Hinge, che tengo quasi esclusivamente per osservare la creatività dei messaggi che puoi ricevere. Un ragazzo mi aveva matchato scrivendo «all’asilo avrei messo il mio giubbotto vicino al tuo».

Nel leggerlo mi sono fermata in mezzo alla piazza, pensando che quella tenera fantasia fosse la cosa migliore che qualcuno potesse scrivermi nel 2025 su una dating app. Ho fatto uno screen a quel messaggio e poi ho annullato il match, rimesso il telefono in tasca e ricominciato a camminare verso casa, osservandomi da fuori e pensando a quanti film su fantasie e imbarazzi e sesso e teatrini serviranno per districare la matassa che è ciò che immaginiamo e desideriamo.
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