Rachel McAdams: «Ditemi solo la verità»
Al cinema Rachel McAdams è una giornalista che fa luce sulla pedofilia. E per questo ruolo può vincere il primo Oscar. Ma anche nella realtà, spiega l’attrice a Grazia, non accetta bugie. A partire da quelle sulla sua vita
Lei ha ancora quello sguardo tra l’ingenuo e il seducente che l’ha fatta diventare, nei suoi primi film di successo, la fidanzata d’America o, altre volte, la nuova bionda sexy. Ma Rachel McAdams, nata, cresciuta e ancora oggi radicata in Canada, si è evoluta. A 37 anni è un’attrice piena fascino e sfumature espressive che, non a caso, ha finalmente ottenuto la sua prima candidatura all’Oscar come migliore interprete non protagonista.
Il merito è anche di Il caso Spotlight, il film del regista Tom McCarthy, nelle sale dal 18 febbraio, che il 28 potrebbe vincere sei statuette. Racconta lo scandalo dei sacerdoti pedofili nell’arcidiocesi di Boston, scoppiato all’inizio degli anni 2000. Rachel McAdams interpreta l’unica cronista donna nella squadra di giornalisti, chiamata appunto Spotlight (“riflettore” in inglese), che ha portato alla luce la vicenda, tenuta per decenni nascosta da un’incredibile serie di complicità.
Questa parte “impegnata” è l’approdo naturale per un’attrice dalla forte personalità. Proprio quando era all’apice della notorietà, nel 2006, ha avuto il coraggio di lasciare il lavoro per un anno, per riflettere sulla strada da seguire. Poi è tornata sul set con un piglio diverso, grintoso e attento alle parti che le venivano proposte, dai due film della serie Sherlock Holmes di Guy Ritchie a Midnight in Paris di Woody Allen. Nello stesso tempo, Rachel ha mostrato un’anima attenta ai più deboli, che l’ha spinta a occuparsi dell’ambiente, degli scandali finanziari e della popolazione di Haiti messa in ginocchio dal terremoto del 2010. Poco parla, invece, dei suoi amori, dopo le love story con i colleghi Ryan Gosling e Michael Sheen.
Prima di girare Il caso Spotlight che cosa sapeva dello scandalo della pedofilia nella Chiesa americana?
«Di questa storia di abusi ricordavo quello che più o meno tutti sanno in America: nella arcidiocesi di Boston sono stati coperti gli abusi commessi da una settantina di sacerdoti su circa mille ragazzi in un arco di tempo di 30 anni. Quel che non sapevo, è quale straordinario lavoro ha fatto, per portarlo alla luce, un team di cronisti del quotidiano The Boston Globe. I quattro di loro più importanti hanno lavorato per mesi in gran segreto negli scantinati del giornale. Il film racconta il loro scoop».
Nel film lei interpreta Sacha Pfeiffer, l’unica donna in una squadra tutta maschile: qual è stato il suo contributo?
«Sasha aveva un compito speciale: trovare e intervistare le vittime delle violenze. Non è stato facile, perché si trattava di persone adulte, spesso sui 40 anni, che dovevano raccontare quello che avevano subìto da bambini. Sasha lo ha fatto con grande umanità. Ed è rimasta in contatto con le vittime anche dopo la fine dell’indagine: non voleva entrare e uscire dalle loro vite come un ladro».
Ha parlato con la giornalista: che cosa le ha detto?
«Mi ha sorpresa con molti dettagli sulle persone. Un giorno dovevo girare una scena in cui Sasha si presenta senza preavviso a casa di una vittima delle violenze, molti anni dopo gli abusi. Suona il campanello e attende di entrare. “Sasha, lo hai fatto davvero, o si tratta di un’invenzione del regista?”, le ho chiesto. Lei mi ha risposto: “È tutto vero”. E mi ha raccontato che questa è la storia di un ciclo ininterrotto di violenze. Spesso i preti pedofili erano stati
a loro volta molestati in seminario. E, diventati adulti, sentivano l’impulso di ripetere le violenze. Sasha mi ha fatto capire come si sia potuto verificare uno scandalo così grande».
Che cosa pensa di papa Francesco, arrivato in Vaticano per affrontare i grandi problemi della Chiesa?
«Bergoglio è una persona perbene e un buon pontefice. Spero che continui a chiedere che i responsabili paghino per quel che hanno commesso. Ci sono ancora molte vittime dello scandalo che soffrono e che non hanno ottenuto giustizia. Bisogna anche evitare che le violenze si ripetano. Sembra che Francesco sia la persona giusta per riuscirci».
Il caso Spotlight è candidato a sei Oscar, tra cui quello per la migliore interprete non protagonista: qual è il motivo per meritare tante statuette?
«Penso che il regista Tom McCarthy abbia colto un punto che era sfuggito persino ai giornalisti. Lo scandalo era sotto gli occhi di tutti e poteva essere denunciato molto prima. Il film spiega in che modo tutti noi diventiamo complici inconsapevoli, o volontari, di vicende simili. A volte il problema è così grande che tutti preferiscono girare la testa dall’altra parte».
Oltre a Il caso Spotlight, di recente è uscito un altro film sul mondo del giornalismo che ha per protagonista una donna: Truth con Cate Blanchett. È solo una coincidenza?
«No. Le donne possono dare un contributo incredibile al giornalismo. Il mio personaggio sa ascoltare le persone con partecipazione e sensibilità. Sasha è una persona empatica. Ma possiede anche quel distacco che incoraggia i testimoni a parlare e ad aprire il loro cuore. I colleghi maschi di Sasha mi hanno detto: “Lei sentiva le vittime delle violenze. Molte di queste erano dirigenti, manager, operai che non si sarebbero sentiti a loro agio a raccontare le loro storie, men che meno a dei maschi. E lei ci è riuscita”. Una giornalista ha qualità speciali».
Lei e la sua famiglia siete credenti?
«Siamo protestanti, una delle mie nonne era molto religiosa e sicuramente, se fossa ancora viva, avrei il timore di scuotere la sua fede con questo film sulle violenze commesse dai sacerdoti pedofili. Ma, al tempo stesso, grazie alla religione ho ricevuto insegnamenti positivi, come il desiderio di essere generosa e attenta agli altri. In questo momento non mi riconosco in nessuna confessione. Probabilmente, se dovessi sceglierne una, direi che mi sento vicina al buddhismo».
Lei fa un mestiere impegnativo e stressante. Come si rilassa nel tempo libero?
«Passo le giornate al telefono con mia madre e con mia sorella Kayleen, che fa la make up artist e a cui sono legatissima. La nostra famiglia è molto unita. Mia madre e mio padre Lance stanno insieme da 40 anni e hanno regalato ai loro tre figli (Rachel ha anche un fratello, Daniel, ndr) un’infanzia felice, anche se c’erano pochi soldi: mia mamma era un’infermiera, mio papà faceva traslochi. Un fine settimana con loro mi rigenera. Purtroppo accade di rado, perché per lavoro sono sempre in viaggio. Quando sono davvero sotto pressione, mi rifugio nella natura, che mi aiuta a mettere in prospettiva qualsiasi problema. Sa, sono canadese, da piccola vivevo in un quartiere molto verde e la mia famiglia possiede un cottage nei boschi. Con gli elementi naturali ho una certa dimestichezza».
Mi hanno raccontato, però, che ha una passione per Londra, dove è spesso per lavoro.
«Mi piace passeggiare tra il quartiere di Soho e Covent Garden. E ho una dipendenza da tè, per cui ogni pomeriggio partecipo al rito del tè alle cinque».
Lei si è battuta contro le trivellazioni in alto mare per trovare il petrolio: è un’ambientalista?
«Mi pongo il problema del futuro del pianeta, oggi più attuale che mai. Meglio prevenire i problemi, che affrontarli quando saranno irrisolvibili. Nel mio piccolo ho fatto alcune scelte. Per esempio, ho messo pannelli solari sul tetto della mia casa di Toronto, in Canada. Ho rinunciato a possedere una macchina. E uso la bicicletta tutte le volte che posso, anche quando sono in una città che non conosco: è il miglior modo per vedere davvero un posto».
C’è stato un momento nella sua carriera in cui lei ha deciso di non lavorare: nel 2006 si è presa un anno sabbatico. Perché lo ha fatto?
«Sentivo il bisogno di ritrovare me stessa. Quando un’attrice ha successo, viene presa da una corrente che la trascina senza darle scelta. Volevo ristabilire l’equilibrio: per me è importante sapere chi sono. La verità è che non ho mai desiderato diventare una grande star. A Hollywood preferisco il mio Canada. Il mondo è diventato più piccolo e non c’è nessun bisogno di stabilirsi a Los Angeles per fare il mio mestiere».
Il suo prossimo film è Doctor Strange, del regista Scott Derrickson, sul personaggio dei fumetti della Marvel Comics. Il ruolo del mago con superpoteri sarà di Benedict Cumberbatch. Quale sarà, invece, la sua parte?
«Per il momento posso dire soltanto che sarò anch’io un medico, un chirurgo con cui il protagonista ha avuto a che fare prima di diventare una persona con poteri psichici speciali, e che rappresenta il legame tra il presente e il passato. Sul set sono sempre accanto a Benedict, il che per me è un grande divertimento».
Lei ha una persona a cui si ispira, un modello?
«Da ragazzina facevo pattinaggio su ghiaccio e il mio mito era la campionessa canadese di questa specialità, Elizabeth Manley. Ricordo di averla vista vincere in tv la medaglia d’argento alle Olimpiadi. Lei aveva una forte paura del pubblico e, siccome anch’io andavo nel panico alla vigilia di un’esibizione, sentivo quell’atleta vicina a me. Ammiravo il modo in cui riusciva a tenere a bada le emozioni e ad affrontare la prova nonostante il terrore».
Lei oggi è diventata una donna che impone sempre la sua volontà?
«Se credo davvero in quello che sto facendo, è difficile che mi arrenda quando mi dicono un no».
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