Caitlyn Jenner: Per essere felici ci vuole coraggio

È trascorso un anno da quando l’ex campione Bruce ha deciso di cambiare sesso e di diventare Caitlyn. Ora è una donna famosa, amata dal pubblico, corteggiata da moda e tv. H&M l'ha voluta come testimonial della sua linea sportiva e a Grazia Caitlyn rivela che, per arrivare qui, ci sono voluti più di 30 anni di dubbi e sofferenze. «Sono stata molto male, ma so superare gli ostacoli. Oggi spero di essere un esempio»

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Immaginate che cosa accadrebbe in Italia se Dino Zoff all’improvviso annunciasse che sta per cambiare sesso - spiegando sommessamente, con le lacrime agli occhi, che si è sempre sentito una donna, tutta la vita, sin dai tempi in cui capitanava maschiamente gli azzurri campioni del mondo nel 1982.

È più o meno quel che è successo qui in America lo scorso anno, quando il leggendario campione olimpico di decathlon Bruce Jenner, all’età di 65 anni, si è trasformato in una procace signora di nome Caitlyn, con tanto di seno prorompente, unghie laccate e tacchi vertiginosi. Tre mogli alle spalle e dieci figli all’attivo (quattro sono figliastri), Jenner ha rappresentato per anni, nell’immaginario americano, l’uomo ideale, lo sportivo eroico, il maschio bello e muscoloso. Bruce era l’atleta che, con grinta feroce e determinazione ferrea riuscì, alle Olimpiadi di Montreal nel 1976, nell’impresa miracolosa di sfilare la medaglia d’oro agli odiati sovietici. Si era in piena guerra fredda e, da semisconosciuto, Jenner si ritrovò stella nazionale, divenendo subito richiestissimo in tv, nel cinema, nella pubblicità, perfino immortalato in fotografia sulle scatole dei cereali Wheaties, tra i più venduti negli Stati Uniti.

Dopo aver sposato la terza moglie Kris, vedova dell’avvocato di O.J. Simpson, Robert Kardashian, e madre dell’ultrafamosa Kim, Bruce divenne poi un beniamino dei reality televisivi, partecipando a centinaia di puntate del seguitissimo Al passo con i Kardashian. Con Kris ha avuto altre due figlie, Kylie e Kendall, oggi entrambe stiliste e modelle, mentre nel programma appariva come un marito e padre schiacciato da un ambiente prevalentemente femminile, un po’ assente e poco interessato alla sfavillante vita sociale delle sue tante donne.

Adesso scopriamo che in tutti questi anni alla ribalta, Bruce moriva dentro. Caitlyn racconta oggi come la consapevolezza di essere una donna intrappolata in un corpo maschile lo tormentava e a volte sfidava la sorte indossando reggiseni e guêpière sotto giacca e camicia, per farsi coraggio. Nei primi Anni 80, ha rivelato dopo il coming out, si sottopose perfino a una cura ormonale, con l’intenzione di affrontare il cambio di sesso. Ma al momento di prendere la decisione definitiva, esitò. Fu colto dalla paura, si tirò indietro, e sposò Kris.

Il giorno in cui incontro Caitlyn in un magazzino adibito a studio fotografico qui a Los Angeles, è reduce da un servizio per il colosso della moda H&M, che l’ha scelta come testimonial della sua linea sportiva, per rivolgersi a un pubblico aperto alle diversità. È passato quasi un anno da quando Jenner ha fatto la sua prima apparizione in versione femminile. Oggi appare spumeggiante, divertita, quasi euforica. Inguainata in leggings neri e top da jogging, si avvicina al tavolo dei giornalisti e, dall’alto del suo metro e 88, si scusa ridacchiando per averci fatto aspettare a lungo: «Ma non vi hanno dato da bere? Niente birra, niente tequila? Che vergogna». È una visione surreale, perché l’uomo che è stata non è completamente sparito dal viso, dalla voce, dalle movenze di Caitlyn, eppure davvero qui c’è una persona nuova.

Quando finalmente mi trovo faccia a faccia con lei nel suo camper, Jenner si è truccata e cambiata. Mi accoglie in jeans, maglioncino di lana beige, sabot di camoscio e delicati gioielli in oro. È ciarliera, simpatica, imprevedibile. Chiaramente affamata, ordina subito un gigantesco cappuccino da Starbucks e, prima ancora che io riesca ad aprire bocca, si lancia in un lungo aneddoto sulla penultima delle sue figlie, Kendall, di 20 anni. «È una ragazza eccezionale», dice. «So che siamo qui per parlare d’altro, ma mi lasci raccontare quest’episodio».

Prego.

«Da quando aveva 10-12 anni, Kendall diceva: “Voglio fare la modella per Victoria’s Secret”. E io: “Lanciati, fallo, realizza i tuoi sogni”. Quando l’ho vista sulla passerella di questo marchio di lingerie, ho pianto di orgoglio. Faceva parte della sua lista di cose da fare prima di morire e ha raggiunto l’obiettivo».

Ha cominciato presto con la lista delle cose da fare prima di morire…

«Sì. I miei figli sono tutti molto motivati. È stato bello osservarla mentre si impegnava per realizzare il suo sogno. Kendall è andata a New York da sola, senza un lavoro. Si è pagata il viaggio e l’albergo. Ha trovato un agente. Poi le offrono una sfilata per Marc Jacobs e le fanno indossare un top trasparente: è il suo primo lavoro da modella, appare davanti alle macchine fotografiche e scoppia il caso su internet. Lei torna a casa a Los Angeles e ci incontriamo per colazione con tutta la famiglia. Le dico: Kendall, ti devo parlare di Marc Jacobs. E lei: no. E io: ti sbagli, ne parliamo. E potresti sorprenderti di quello che ho da dirti. Lei mi guarda e fa: va bene, sentiamo. E io le dico: sono molto orgoglioso di te (Caitlyn a questo punto era ancora Bruce, ndr). Vuoi sapere perché? Perché ti hanno detto di indossare quel top e tu non hai fatto storie. Sei stata incredibilmente professionale. Si è parlato di te, e probabilmente è stata ottima pubblicità. Quindi, brava. È stata una lezione per lei. Essendo suo padre, so che queste cose succedono in continuazione. Certo, vanno ridotte al minimo, ma succedono».

Parlando di professionalità, questo mi ricorda quel che si diceva di lei ai tempi del decathlon: Bruce non era forse l’atleta più forte, ma di sicuro il più tenace.

«È vero. Non ero l’atleta migliore, ma senza dubbio quello che si impegnava di più, di gran lunga. Mi sono allenato, ho affrontato la sfida con intelligenza e ho vinto. E poi ho continuato a vincere per tre anni, senza mai perdere una gara. Ho battuto il record mondiale per tre volte. Il tutto grazie al lavoro duro e alla dedizione. Si tratta di scoprire quali sono i tuoi punti di forza e quali i punti deboli e lavorarci».

Pensa che quel genere di determinazione la stia aiutando adesso, nella sua nuova vita?

«Assolutamente sì».

In che modo?

«Perché io sono una che supera gli ostacoli. Il successo non si misura in base alle altezze ottenute, ma agli ostacoli che si sono superati. Io ho dovuto superarne tanti nel corso della mia vita. Ho sofferto molto negli Anni 80. Fu un periodo difficilissimo per me. Avevo deciso di effettuare il cambio di sesso entro i 40 anni. Non riuscivo più a sopportare la situazione, mi dicevo: non ce la faccio più, devo farlo. Poi sono scoccati i 39 anni e non me la sono sentita».

Come mai? Che cosa l’ha fermata?

«La miglior risposta che posso darle è: non era il momento. È così semplice. La società, la situazione personale in cui mi trovavo… Dopo la cura di ormoni femminili, non riuscii ad andare oltre. Nel 1977 ci fu il caso di Renée Richards (tennista nata maschio, che al tempo fu prima respinta e poi ammessa al circuito professionale femminile, ndr). Mi ricordo che subì forti attacchi sui media. L’opinione pubblica di allora aveva della questione una percezione molto diversa rispetto a oggi. Inoltre avevo quattro figli piccoli. Non potevo far loro una cosa del genere. Poi incontrai Kris, lei aveva già quattro figli che divennero anche miei, abbiamo avuto due ragazze e abbiamo passato 23 anni insieme. Ho gestito i miei problemi al meglio delle mie possibilità».

Kris sapeva del suo desiderio di essere una donna?

«Certo, lo sapeva benissimo. Gliene parlai prima ancora di sposarci. Al tempo pensai: “Possiamo farcela, possiamo gestire questa cosa. In fondo, l’ho gestita così a lungo…”. Poi io e Kris ci siamo separati».

Per via del suo cambio di sesso?

«Onestamente il cambio di sesso c’entra molto poco nella nostra separazione. C’erano molte altre cose che non andavano. Ci trattavamo male, tutti e due. Dopo molti anni insieme, le dinamiche di un rapporto cambiano. Ci siamo detti, smettiamola. Kris mi ha suggerito: tu prenditi casa a Malibu, io resto qui. E così abbiamo fatto».

E adesso, siete in contatto?

«Oh, sì. Abbiamo un ottimo rapporto. Lei è stata grandiosa. Mi ha accettato in pieno. Tutti i miei figli sono stati di sostegno. Ho un rapporto bellissimo con i miei ragazzi e, dopo il passaggio, è perfino migliorato. Perché quando non devi più mantenere un segreto, vivere nella bugia, è come togliersi un peso da una tonnellata dalle spalle. In più, nel mio caso, c’era il tormento dei media, che mi distruggevano da anni, da molto prima della mia decisione di fare coming out. Faceva tutto parte della fabbrica del pettegolezzo: hanno venduto milioni di copie e guadagnato un mucchio di soldi sulla mia pelle. Per anni. Mentre io stavo ancora cercando di capire che cosa fare, chi ero, come gestire il passaggio, come affrontare la mia nuova vita».

È ancora alla ricerca della sua identità?

«No. Adesso è tutto chiaro. La vita è bella. L’altro giorno, mi sono alzata, mi sono preparata per uscire e improvvisamente mi sono detta: “Mio Dio. Sono felice”. Io non mi sono mai svegliata felice. Mai, mai, mai nella vita. Ora ciascun individuo della mia comunità, la comunità transgender, fa le cose a modo suo. Alcuni affrontano il passaggio molto giovani, altri molto più avanti negli anni. Puoi farlo soltanto quando è il tempo giusto per te. Quando arriva il momento di smettere di lottare».

Rimpiange di non aver cambiato sesso prima?

«Ma no. Ho avuto una vita bellissima, strabiliante, con moltissime esperienze eccezionali. E poi, posso vantare un doppio record che nessun altro al mondo avrà mai: sono stato campione olimpico maschile di decathlon e poi ho vinto il premio come Donna dell’Anno del mensile Glamour. Imbattibile».

Il Bruce dei cereali Wheaties rappresentava per il pubblico un certo tipo di americano: forte, maschile, determinato. La Caitlyn di oggi, testimonial di H&M, che cosa spera di rappresentare?

«L’apertura mentale. La tolleranza verso gli altri e, spero, la comprensione. In questo mondo esiste la diversità. Siamo tutti unici e questa mi pare una buona cosa. Dobbiamo imparare a vedere le nostre differenze come una ricchezza. Spero con questo spot di dare ispirazione a chiunque abbia una battaglia da affrontare nella propria vita».

L’accettazione delle differenze a volte richiede tempo. È successo anche a lei, mi pare. Per esempio, in un’intervista televisiva con Ellen DeGeneres, ha confessato di non essere sempre stata a favore del matrimonio gay.

«È un viaggio, è un percorso. Anche per me. Nell’intervista con Ellen, pensavo di essermi spiegata chiaramente, ma la nostra comunità e la stessa Ellen non l’hanno presa bene. Hanno detto: come fai a essere trans e a non sostenere il matrimonio gay? Ma io l’ho detto: lo sostengo il matrimonio gay. Ma ci ho messo del tempo per arrivarci. All’inizio non capivo, 15 anni fa le cose erano diverse per tutti. Poi i media hanno creato un putiferio e la domanda è diventata: come è possibile che Caitlyn possa essere stata contraria? Io ho soltanto detto che per me è stato un percorso. Del resto, è stato lo stesso per il presidente Barack Obama e per Hillary Clinton. Anche loro hanno cambiato idea sul tema».

Si considera ancora un’atleta? In che modo è cambiato il suo rapporto con lo sport e la cura del corpo?

«Ci sono alcuni luoghi comuni in merito alla comunità transgender e uno di questi è che, una volta cambiato sesso, la tua intera vita cambia. Certo, molte cose sono diverse, ma tante altre sono rimaste uguali. Il mio amore per lo sport e la voglia di rimanere sempre attiva, per esempio, sono rimasti gli stessi. L’unico sport che pratico attivamente da 15 anni è il golf: Bruce era così così e anche Caitlyn ha ancora molto da imparare».

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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.

Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.

Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.

È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».

Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.

Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.

Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.

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Grazia è in edicola con Maya Hawke

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Ecco cosa vi aspetta nel nuovo numero di Grazia, da oggi in edicola e su app

Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.

Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.

Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.

Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.

Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.

E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com