Nata a Pavia ma milanese d’adozione, Bellamy Ogak è co-fondatrice di Afroitalian Souls, un portale creato nel 2015 con l’obiettivo di raccontare le eccellenze della diaspora africana in Italia e nel mondo, oggi seguito da 33,8 mila follower. Tra i progetti più recenti in attivo Bellamy ha ideato Equalitalk, un podcast di dieci puntate in cui, insieme a Irene Facheris, discute del tema del razzismo in Italia. Un argomento scomodo che nel nostro Paese viene spesso sottovalutato o strumentalizzato. La diversità come bellezza e punto di forza da valorizzare è al centro della nuova collezione per la Primavera-Estate 2021 di Marina Rinaldi, brand impegnato su questo fronte da quarant’anni. Per l’occasione abbiamo fotografato e chiacchierato con Bellamy, scoprite cosa ci ha raccontato nell’intervista.
Ciao Bellamy, qual è il ricordo più positivo legato a un capo d’abbigliamento che conservi e vorresti condividere?
Ciao, ne ho due che mi vengono in mente al momento. Il primo è uno spolverino (il mio capo d’abbigliamento preferito in assoluto) blu notte, con le spalline leggermente arricciate, doppiopetto, che segna il punto vita, intrecciato come un bustier sulla schiena, per poi aprirsi con delle pieghe ampie fino al ginocchio. È stato il primo capo costoso che ho acquistato autonomamente in quarta-quinta superiore e che ho indossato allo sfinimento. Mi sentivo incredibilmente sofisticata, femminile e forte. Nonostante non mi entri più da anni lo conservo con affetto e devo ammettere che si è conservato molto bene. Il secondo è invece un accessorio tipico della mia etnia: una catenina di perline bianche che si mette in vita. Dalle mie parti è una tradizione trasmessa di generazione in generazione, le bambine la indossano dalla nascita. Io essendo nata e cresciuta in Italia purtroppo ho iniziato a portarla solo quando ero già adolescente, durante il mio primo viaggio in Uganda. Mi è stato regalato da una mia zia paterna, e ricordo che fui invasa da un vortice di estasi, commozione e gratitudine. Era un simbolo che mi legava alla terra dei miei antenati, alla cultura che da quel momento decisi di conoscere. La indosso ancora oggi, è una parte integrante di me.
La costruzione di uno stile personale può a tuo parere aiutare il processo di emancipazione?
Io penso che lo stile possa diventare uno strumento per comunicare alcuni aspetti della nostra personalità, un nostro modo di voler stare al mondo. In alcuni casi, l’abito fa il monaco, quando viene scelto consapevolmente, per imporre la propria presenza, per lanciare un messaggio, per normalizzare determinati costumi. La storia della moda ci insegna che alcuni capi di abbigliamento hanno accompagnato vari processi di emancipazione femminile, per esempio. Certo che, finché ad avere il potere di imporre leggi, di determinare l’evoluzione dei processi culturali e quindi della mentalità di una nazione, rimarrà solo un gruppo omologato di persone, lo stile avrà un’influenza molto limitata.
Design: seduta Heritage di Seletti
Credi che il concetto di body positivity sia cambiato nel corso del tempo? Se sì, in che modo?
Sì, penso che da quando è diventato mainstream ed è stato strumentalizzato, in particolare da aziende cosmetiche nelle campagne pubblicitarie per trarre profitti economici, abbia perso il suo significato originale. Ovvero che tutti i corpi, indipendentemente dallo stato di salute, dall’abilità, dal peso, dal genere e dalla “razza” sono validi e devono essere rispettati. Ho notato come, soprattutto in Italia, il concetto di body positivity sia diventato sempre più superficiale, ridotto a una questione meramente estetica; un ingrediente della ricetta per accettarsi così come si è ma senza distaccarsi troppo dai canoni estetici imposti da una società che è sessista, abilista, che esalta la giovinezza, la bianchezza e considera solo le eteronormatività. Di conseguenza sono stati esclusi i corpi grassi, perché considerati malsani, nonostante il movimento sia nato anche e soprattutto per loro; i corpi non conformi, le persone non bianche e quelle non cisgender. È rarissimo infatti vedere persone grasse, nere (per non dire di origine asiatica, araba ecc), non binarie, con disabilità, essere scelte come protagoniste di salotti, copertine, dibattiti o post sui social media focalizzati sulla body positivity. A questo proposito, consiglio di leggere il libro “Belle di Faccia” scritto da Chiara Meloni e Mara Mibelli, che spiegano molto bene l’origine e lo sviluppo sia della body positivity che della fat acceptance.
« Più che di inclusività, preferisco parlare di accettazione e rispetto delle diversità, in una società in cui tutte le categorie sociali sono poste sullo stesso piano »
Cosa significa nel 2021 essere inclusivi?
Più che di inclusività, preferisco parlare di accettazione e rispetto delle diversità, in una società in cui tutte le categorie sociali sono poste sullo stesso piano, dove non esiste uno standard che deve includere chi si discosta dall’idea di normalità, ma nel quale tutte le persone sono diverse le une dalle altre. Dunque per una convivenza rispettosa e paritaria tra le diversità di genere, di abilità, di religione, di razza. Le cose principali da tenere a mente secondo me sono ascolto, empatia e la disponibilità a mettersi in discussione per liberarsi di pregiudizi cognitivi che possiamo aver interiorizzato e che sono discriminatori verso determinate persone.
Come si può gestire il rischio di tokenism?
Bisogna lavorare sempre con gruppi di persone più diversificati possibili. Nel caso della moda ad esempio, assicurarsi che modelle/i, PR, agenzie, assistenti di produzione, fotografe/i, stampa, abbiano una rappresentazione equa delle varie categorie sociali e che in particolare quelle minoritarie o oppresse non siano prese in considerazione soltanto quando si trattano temi che le riguardano, o per dimostrare di essere “inclusivi”, perché il pubblico oggi se ne accorge.
Design: Nera Bowl di Zanat
Come vorresti che fosse la moda del futuro?
Sogno un settore che non privilegi alcuni corpi rispetto ad altri sia nella produzione dei capi d’abbigliamento, sia nella rappresentazione sulle passerelle; che non abbia una gerarchia di rilevanza tra i vari paesi e quindi che la settimana della moda di Dakar ottenga la stessa stima e copertura mediatica di quella di New York, ad esempio. Vorrei che l’industria della moda smettesse di strumentalizzare le ingiustizie sociali per vendere.
Potete acquistare i capi della collezione di Marina Rinaldi per la Primavera-Estate 2021 online su marinarinaldi.com.
Credits
Talent: Bellamy Ogak
Foto: Paolo Colaiocco
Video: Michele Giannantonio
Stylist: Thais Montessori Brandao
Mua: Ginevra Pierin
Hair: Rodrigo DeSouza e Erisson Musella
Set Design: Elisabetta Boi
Produzione: Take Off Production
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