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Lifestyle

Vinicio Capossela: «Se volete imparare a sognare, fidatevi di me»

Vinicio Capossela: «Se volete imparare a sognare, fidatevi di me»

foto di Vincenzo Petraglia Vincenzo Petraglia — 24 Novembre 2011

Fotogallery Vinicio Capossela: «Se volete imparare a sognare, fidatevi di me»

  • Vinicio Capossela Vinicio Capossela
  • Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela nasce a Hannover il 14 dicembre 1965.
  • Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela nasce a Hannover il 14 dicembre 1965.
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  • Vinicio Capossela Vinicio Capossela Vinicio Capossela nasce a Hannover il 14 dicembre 1965.
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Per Vinicio Capossela essere fuori dal coro è un’arte. Tanto che per il suo tour marinai, profeti e balene fa un patto con i ragazzi di oggi. «La mia musica vi porterà sulla nave della fantasia. Voi, però, provate a buttare via tutti quei telefonini»  

Per Vinicio Capossela essere fuori dal coro è un’arte. Tanto che per il suo tour marinai, profeti e balene fa un patto con i ragazzi di oggi. «La mia musica vi porterà sulla nave della fantasia. Voi, però, provate a buttare via tutti quei telefonini».

Assistere a un suo show è un po’ come fare un salto nel mondo surreale delle favole che da bambini popolavano e accendevano la nostra fantasia. Vinicio Capossela è un cantastorie di razza, un po’ come quelli che un tempo giravano a bordo di un carrozzone colorato, fermandosi nelle piazze a incantare il pubblico.

Lo ha dimostrato ancora una volta con Marinai, profeti e balene, per il quale ha ricevuto il premio Fabrizio De André alla carriera e la targa Tenco, come miglior album del 2011, e che ha dato il titolo al suo tour teatrale (fino al 22 dicembre in tutta Italia). E non solo. Per la gioia di chi ama la fantasia di Vinicio, l’album uscirà il prossimo 29 novembre in una special edition, arricchita da contenuti extra in dvd.

Vinicio, che cosa si troverà di fronte chi verrà ad ascoltarla e applaudirla in tour?
«Chi entrerà in teatro si imbarcherà per un viaggio  a bordo di una nave fatta di ossa, governata da una ciurma di uomini-pesce che suonano gli strumenti più disparati. Poi, assisterà a tre apparizioni femminili, rappresentate dalle donne sarde del gruppo Actores Alidos che, di volta in volta, saranno molto più di un semplice coro. Non mancheranno, infine, richiami a figure mitiche come Dante e Ulisse. Spero di stimolare nel pubblico la parte migliore e più alta di tutti noi».

Se Vinicio Capossela fosse uno dei personaggi della mitologia quale sarebbe?
«Mi sono sempre sentito affine alle creature a metà, la cui tragedia non è solo essere la “fusione” di due cose diverse, ma non poter essere, fino in fondo, né l’una né l’altra. Un po’ come il Minotauro o le sirene. Mi piacciono anche gli esseri fuori misura, come il Ciclope o il Leviatano. Ma se dovessi, comunque, scegliere solo uno dei personaggi mitologici, direi Aracne, la tessitrice che venne trasformata in un ragno per superbia».

Secondo lei la musica può essere terapeutica e aiutare a superare i momenti difficili?
«Certo, è un dono che facciamo a noi stessi. Solo che dovrebbe essere insegnata meglio a scuola. Non c’è disciplina che educhi di più all’ascoltarsi, alla convivenza civile, all’unire, invece, che al dividere. La cosa che amo di più del mio lavoro è mettere insieme gruppi canori, cercare sonorità e nuovi “timbri”. Gli strumenti sono come le automobiline con cui giocavo da piccolo, hanno una faccia, una personalità, fanno compagnia. Cantare nei momenti di difficoltà, per esempio, è profondamente rilassante, lo fanno da sempre le donne che stendono il bucato o i contadini nei campi. Anche i lamenti funebri servivano per esorcizzare il dolore».

Lei che gira costantemente l’Italia, che cosa coglie del nostro Paese? Quali sono i bisogni e i sogni dei ragazzi che assistono ai suoi concerti?
«Percepisco la grande difficoltà di entrare nel mondo del lavoro: uno dei sogni più grandi dei giovani resta quello di trovare un’occupazione ed essere indipendenti economicamente. Per il resto credo che si sognino le cose di sempre. I ragazzi di oggi sono infinitamente più concreti. Quelli della mia generazione cercavano vie di fuga nei viaggi rocamboleschi e nell’evasione a tutti i costi. Oggi mi colpiscono la sana indignazione, ma purtroppo anche l’isolamento implicito nel modo di usare telefonini e smartphone. È preoccupante vedere, a volte, anche durante i concerti, più gente impegnata a maneggiare uno schermo che a ballare, abbracciarsi o semplicemente chiudere gli occhi per lasciarsi andare alla musica».

Che cosa non sopporta proprio del periodo che stiamo vivendo?
«Cerco di non farmi coinvolgere dal voyeurismo contagioso di  tante trasmissioni e giornali. Non guardo la televisione e per questo mi considero un privilegiato».

C’è una via d’uscita, secondo lei, a tutto questo?
«Non si può parlare a nome di tutti, la risposta è molto personale e variabile».  

Che tipo di bambino era Vinicio Capossela? Ci deve essere stato qualcosa nella sua infanzia o nella sua famiglia che ha alimentato la sua fantasia...
«Le rispondo partendo dalla mia prima elementare. In classe c’era un compagno che si chiamava Spessotto, aveva il grembiule senza il fiocco e bisognava fare la colletta per comprargli i quaderni. Ce ne era un altro che si chiamava Davide e che, invece, era sempre perfetto. Naturalmente io ero dalla parte di Spessotto. La mia famiglia è originaria dell’Irpinia, sono nato in Germania e poi trasferito in Emilia Romagna, dove venivo considerato un po’ “straniero”. Forse perché ero io il primo a non sentirmi in sintonia con quel luogo. Questo senso di non appartenenza mi è sempre rimasto dentro. Per il resto vengo da una famiglia che è cresciuta con una grande consapevolezza del sacrificio e della paura di non farcela. Tuttavia i miei genitori sono sempre stati ostinati, tenaci e incrollabili. E soprattutto, amavano raccontare. Dopo i turni nella fabbrica di ceramica in cui lavoravano li sentivo chiacchierare per ore e i personaggi della loro vita quotidiana si ingigantivano nella mia fantasia. Lo stesso accadeva con le mie zie. Quando tornavo d’estate in Irpinia, le donne mi coccolavano con storie fantastiche che prendevano spunto da avvenimenti molto semplici».

Quello che racconta si lega al tema della diversità, che spesso emerge nei suoi spettacoli. Lei si è sempre sentito un po’ fuori dal coro...
«Sì, ma non esageriamo. Forse ero solo un po’ riflessivo, amavo stare in disparte. Ma il mio desiderio, come per tutti i bambini, era essere esattamente come tutti gli altri. Certo, mi piacevano i film horror e cercavo apposta tutto quello che faceva venire i brividi. L’amore per il grottesco e le creature fantastiche o deformi ha un significato che va oltre la fiction. In fondo i “mostri” svelano nell’aspetto fisico tutti gli orrori che la gente generalmente nasconde dentro di sé».

Quanto è difficile oggi essere “diversi” rimanendo sempre e fino in fondo fedeli ai propri principi?
«Farsi amare per quello che si è (e non per ciò che si vorrebbe essere), è una grande conquista. Invece la gente passa la vita cercando di cambiare se stessa o gli altri. È più semplice nascondere la propria natura e fare finta di essere vincenti, di non sbagliare mai. Secondo me gli errori sono l’elemento più sincero che mostriamo di noi stessi e possono diventare un punto di forza. Purtroppo viviamo nella società dei consumi che preferisce uniformare, appiattire e non ha tempo per le sfumature. Noi artisti e cantanti dovremmo occuparci proprio di questo, di cogliere tutti i dettagli che alla maggioranza delle persone sfuggono».

Da bambino sognava di diventare musicista?
«No, pensavo di fare lo scienziato, di quelli un po’ folli che si vedono in molti film. È per questo motivo che, finite le scuole superiori, mi iscrissi a chimica».

Qual è l’insegnamento più importante che le è arrivato dalla musica?
«Che è uno strumento per “salvare” cose e persone. E per non lasciarci sfuggire le emozioni, man mano che le viviamo».

“Marinai, profeti e balene” ha ricevuto il premio Fabrizio De André alla carriera e la targa Tenco come miglior album del 2011. I suoi fan sono un “clan” compatto che la segue e la sostiene ovunque. Da che cosa dipende, secondo lei, questo grande successo?
«Non saprei spiegarlo. Credo solo di essere riuscito a stabilire un rapporto di fiducia, una sorta di patto. Non sottovaluto il mio pubblico e faccio molta ricerca per non proporre mai lo stesso tipo di canzoni. Penso che questo mio modo di affrontare il  lavoro, alla fine, sia stato capito. E premiato».  

Ci racconti il suo processo creativo. Ci sono luoghi particolari in cui va a cercare l’ispirazione?
«Quando voglio scrivere qualcosa di nuovo mi metto in viaggio, proprio come facevano una volta i pellegrini. Partire è il primo passo per imbattersi in un’occasione e in un incontro che possono far nascere un testo o una sonorità speciali. Sono le persone e i luoghi inaspettati che mi aiutano a crescere e creare. La definirei una specie di reazione a catena».

Quanto contano gli affetti e i sentimenti nella sua musica?
«L’amore è una specie di “guscio”. Anche nell’etimologia della parola Eden è contenuto il concetto di “recinto”. Questo vuol dire che il nostro paradiso è qualcosa di limitato e protetto. Però, è anche vero che quando le  frontiere sono custodite le civiltà fioriscono, hanno risorse per occuparsi anche del bello, costruire templi, dedicarsi alle cose apparentemente inutili, ma che si rivelano più nobili».

Lei fa molti riferimenti alla Bibbia. Quanto l’affascinano i testi sacri?
«Delle Sacre Scritture mi colpisce soprattutto il linguaggio, che è fortissimo, pieno di visioni e immaginazione. In più è un modo di esprimersi solenne e magico. Un po’ come accade in Moby Dick che per me è quasi un testo sacro...».

Se potesse suonare con uno dei musicisti di ieri o di oggi che apprezza particolarmente, chi sceglierebbe?
«Ho lavorato con il greco Psarantonis e mi basta. Lo considero una specie di Zeus con la lira. Viene da Creta, l’isola del Minotauro, scrive canzoni che hanno versi surreali e in sintonia con il mio mondo. Finora sono stato molto fortunato con gli artisti che ho incontrato. Per esempio, in Marinai, profeti e balene, il gruppo degli uomini-pesce è il migliore che si possa desiderare, insieme al coro di voci femminili. Mi piace sempre esibirmi accompagnato da un coro perché amplifica la solitudine del protagonista. È una scelta che dà un tono epico alla musica».

Il 14 dicembre compirà 47 anni. C’è un oggetto che le piacerebbe ricevere in regalo?
«Ho sempre amato gli organi, quelli grandi e corredati da molte luci, perfetti per accompagnare le fiabe in un mese, dicembre, suggestivo per raccontarle. Come vede non riesco proprio a fare a meno della musica. Ma anche della fantasia».

© Riproduzione riservata

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