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Grazia

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Lifestyle

Stefano Bollani: «Io non mi fermo mai»

Stefano Bollani: «Io non mi fermo mai»

foto di Stefania Rossotti Stefania Rossotti — 30 Settembre 2011

Pianista jazz, conduttore tv e anche scrittore. per Stefano Bollani l’importante è non porre limiti ai propri talenti. "E non trasformare la vita in qualcosa che somigli a un lavoro"

Stefano Bollani

La cosa più stupefacente, in Stefano Bollani, è la sua, enorme, stanchezza.

Non il suo genio pirotecnico di pianista jazz, non la sua grande capacità di affabulazione, non il suo saper saltare su piani diversi (dalla musica ai libri, dalla radio alla tv).

Nemmeno la sua straordinaria capacità di capire tutto al volo. Quel che più mi colpisce - e che più mi sembra importante per raccontarvi di lui - è, appunto, la stanchezza.

Più interessante della sua energia, proprio perché imprevista. Il “catalogo Bollani” è sterminato e complesso, tanto per citare le ultime righe: un disco uscito da poco (Big Band!), un altro (Orvieto, raccolta dei concerti fatti con Chick Corea) in uscita a ottobre, un libro da scrivere per Mondadori, una trasmissione su RaiTre (Sostiene Bollani, in onda la domenica sera alle 23.30).

Bollani, non ha ancora 40 anni e ha già così tante vite. Quante volte crede di potersi moltiplicare? Quanti talenti suppone di avere?
«Ne abbiamo tutti almeno due o tre. Solo che non lo sappiamo e ci fermiamo al primo. O magari non scopriamo nemmeno quello. Io, da bambino, ho capito di saper fare musica. E questo mi ha salvato e mi ha fregato».

Perché fregato?
«Magari sarei stato un ottimo spadaccino e non lo saprò mai. Sono sul palco, suono e non so che cosa mi perdo, che cosa avrei potuto essere».

Per adesso sa di saper fare musica. E condurre trasmissioni alla radio. E scrivere libri. E fare tv. Non le basta?
«I talenti sono misteriosi. Potenzialmente infiniti».

Ma anche i limiti sono interessanti. Non se ne pone mai?
«Io li sfido, provo a vedere fin dove posso arrivare».

Mi dica una soglia invalicabile, una cosa oltre alla quale non è riuscito ad andare.
«No».

No, cosa?
«No, non glielo dico. Voglio continuare a far finta di non aver mai visto il fondo. Non voglio riconoscere i miei limiti, non voglio sapere dove andrò a finire. Non voglio sapere quando e dove morirò. E, per la verità, non vorrei nemmeno sapere che impegno ho domani mattina alla tal ora. E invece, purtroppo, lo so già».

È così faticoso pensare a domani?
«Quando fai musica devi assolutamente darti una struttura: senza quella non puoi improvvisare. È un limite che ci vuole, è indispensabile. Anche quando scrivi devi darti una forma, un contenitore. Ma, nella vita, preferirei non averne. Non mi piace...».

Che cosa le piace, invece?
«Leggere, scrivere, andare al cinema. Per il mio lavoro serve tutto. O forse no, forse nella mia musica non metto niente di tutto questo».

Mi dica una cosa “inutile” che le piace fare.
(Silenzio) «Mamma mia, non mi viene in mente niente. Questo è un problema, ma perché mi fa domande a cui non so rispondere? Poi mi restano in testa...».

È un’intervista, un effetto collaterale della notorietà.
«Dunque, vediamo. Una cosa inutile… Ecco: una volta mi piaceva mettere in ordine dischi e libri, migliaia di dischi e di libri. Li archiviavo in ordine alfabetico. E poi stravolgevo tutto: mettevo di qua gli inglesi, là gli americani e ricominciavo da capo. Era un modo per cercare di mettere a posto la mia testa».

Ha mai pensato di parlarne con uno psicologo?
«Troppo tardi: non la faccio più questa cosa, anche perché non ho più “una” casa. Vivo un po’ a Firenze, un po’ in Versilia. E poi in giro per il mondo. Non ho più un posto fisso dove giocare al “piccolo bibliotecario”».

Ma dov’è “casa” per lei?
«È dove sono io, fosse anche un albergo».

Come si vive in albergo?
«Benissimo. È tutto più facile. Perché lì ho un solo vestito, un solo spazzolino, un solo libro da leggere. Non devo scegliere niente. A casa - anzi, nelle case - ci sono decine di libri imperdibili, che stanno lì, ad aspettarmi. Sono troppi, mi danno le vertigini e così non leggo niente».

Ma lei vuole davvero fare tutto quello che fa, essere così polivalente, oppure, semplicemente, non ne può fare a meno?
«Spero che la mia non sia dipendenza dal lavoro. Sono convinto che, se frequentassi solo musicisti, mi annoierei a morte».

Che cos’è la calma?
«Non lo so».

Interessante.
«Posso parlarle della tranquillità. È quella cosa che provo quando salgo sul palco e comincio a suonare. È meraviglioso: perché sto facendo quel che più mi piace e nessuno mi può interrompere. Non ci sono cellulari, email, autografi, campanelli che suonano alla porta».

È questa la musica per lei? È piacere?
«Piacere e dovere. E questo è il bello. Suono e mi guadagno la pagnotta. Suono e mantengo i miei due figli (Leone, 12 anni, e Frida, 7). Suono e la gente mi ascolta perché ha pagato per farlo. E, quindi, vuole che io suoni: non posso sentirmi in colpa. È perfetto».

Scusi, ma allora perché non suona e basta? Perché i libri, la radio, la tv?
«Il fatto è che voglio provare tutto. Anche se a volte mi chiedo: che ci faccio qui? Volevo solo fare musica e, invece, ho riempito la mia vita di viaggi, appuntamenti, progetti, discussioni. Tutti insieme formano qualcosa di troppo simile al lavoro. E io non volevo lavorare!».

E il silenzio? Sa dirmi che cos’è?
«Quando sono da solo non ascolto musica. Ce n’è già troppa in giro, quella “di sottofondo” con cui inondano i locali. È terribile. Perché questa invasione insegna alla gente a non ascoltare la musica, a parlarle sopra. Perché mai dovrebbero assistere in silenzio a un concerto, se sono abituati a sovrastare le note con le parole?».

I giovani sentono tanta musica, con gli auricolari…
«Ne ascoltano troppa e, quindi, non la capiscono più. Sono sordi. Quando io ero ragazzo, sudavo per comprarmi un “vinile”, andavo a Londra in cerca di un disco… Adesso, con internet, hai a disposizione tutto e subito. Come fai a capire davvero quello che stai cercando?».

Lei che cosa sta cercando?
«Dovrei cominciare a chiedermelo. Ma per parlare con me stesso avrei bisogno di silenzio assoluto. E di solitudine».

Non sta mai da solo?
«Poco, ma intensamente. L’inverno scorso sono stato in Canada, in una specie di rifugio per musicisti. Ti davano cibo, un posto dove suonare, uno dove dormire. Avrei potuto non vedere nessuno per giorni».

E invece?
«Ho fatto amicizia con una pianista giapponese, con una cantante scandinava…».

© Riproduzione riservata

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