Fotogallery Simone Lenzi: «Nella fecondazione assistita gli uomini… assistono»
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La “liturgia farmacologica” a base di ormoni, l’intimità di coppia che non c’è più, il proprio contributo dato “in uno stanzino”. Simone Lenzi racconta la ricerca di un figlio che non arriva da un punto di vista nuovo: quello dell’aspirante papà
La “liturgia farmacologica” a base di ormoni, l’intimità di coppia che non c’è più, il proprio contributo dato “in uno stanzino”. Simone Lenzi racconta la ricerca di un figlio che non arriva da un punto di vista nuovo: quello dell’aspirante papà.
Lui e gli spermatozoi. Anzi, gli “animalcules”. Così Simone Lenzi, voce e cuore del gruppo indie rock Virginiana Miller , nel suo primo libro La generazione (Dalai), che sta diventando un film (per la regia di Paolo Virzì), racconta il punto di vista maschile sui misteri della sterilità, prendendo a prestito un termine desueto dei primi esperimenti sul tema.
Per la precisione, da Antoni van Leeuwenhoek, che a Delft nel 1700 studiava tutto al microscopio, anche i suoi spermatozoi. E, tra abati e medici di corte, in un buffo controcampo, Lenzi racconta la storia di Guido, portiere di notte, che insegue un bambino che non arriva, e di Antonia, che a ogni ciclo mestruale lo guarda e dice di sentirsi “scadere”...
È un romanzo, ma anche una riflessione sul tema della fertilità-sterilità. Dal punto di vista di lui. La generazione al cinema cambierà titolo. Virzì - che pure è amico di Lenzi, livornese come lui, e aveva letto le bozze del libro - ha deciso di ambientarlo a Roma e non in Versilia, optando per Tutti i santi giorni.
«Credo che quella sul “generare” sia una domanda cui, alla fine, nessuno può sfuggire», dice Lenzi. «I maschi tendono a rimuoverla perché vivono in una società vecchia, che ha imposto per contrappasso il mito della giovinezza e, quindi, l’illusione che le decisioni siano rimandabili o, comunque, non pertinenti a un presente che pare infinito.
Il protagonista del romanzo cerca di rispondere per come può farlo un maschio, ovvero come uno al quale in fondo si chiede apparentemente solo di chiudersi in uno sgabuzzino e di versare qualcosa di suo in un vasetto». La “scena dello sgabuzzino” in ospedale è una delle più dolciamare del libro. Però un’aspirante madre, se va bene, si confida con l’amica del cuore o in Rete, con le altre “fivettare” (Fivet è l’acronimo di fertilizzazione in vitro con embryo-transfer, ndr).
Un aspirante padre con chi parla?
«Quello del mio libro, che ha un sacco di tempo libero perché fa il portiere di notte, cerca di rispondere interrogando la sapienza umana, i grandi medici e i filosofi del passato che si sono posti la domanda sulla “generazione” prima di lui. Lo fa perché ama leggere e perché non ha nessuno con cui parlare. Mettere ordine nell’affollato caos di rimandi e teorie diviene così il suo compito più assillante. Credo che gli esiti di questo incessante lavorio della mente siano tragici e comici allo stesso tempo. Ci sono pagine che mi hanno fatto molto ridere mentre le scrivevo».
Il suo aspirante padre, però, è molto solo.
«Sono in questa condizione tutti i maschi che affrontano un percorso di procreazione assistita. Quella specie di liturgia farmacologica che invade il corpo della donna lo riguarda solo passivamente».
Eppure sono struggenti le pagine in cui lui, nel bagno di un treno, fa le iniezioni di stimolazione ormonale alla moglie. Quasi una “cerimonia privata” in cui, ogni volta che le buca la pancia con una siringa, la prende come “legittima sposa”, forse più del giorno in cui le ha messo l’anello al dito. È un modo surreale e tenero di raccontare questa vicenda...
«Perché l’uomo deve - o, almeno, dovrebbe - esserci sempre. Per rispondere, calmare, ascoltare, accogliere le ansie della compagna. Poi, però, non ha nessuno con cui parlare. Di che cosa, del resto? Non è suo il corpo che viene messo in gioco in tutte quelle manipolazioni ospedaliere».
E il ruolo dell’aspirante padre, dunque, qual è?
«Al “netto” del prelievo del seme, il suo compito diventa quello di riuscire, con la sua compagna, a superare la convinzione che una donna non è completa se non diventa mamma. Deve dimostrare a se stesso che, qualunque sia il risultato, la cosa più importante è essersi posto quel problema».
Sua moglie ha letto il libro? Che reazione ha avuto?
«È stata la mia prima lettrice. Mi ha detto che l’aveva commossa e divertita. Così ho creduto di aver conquistato la parte di pubblico a cui tenevo di più».
Spera che il suo libro possa far riparlare di fecondazione assistita e, magari, portare a rivedere la legge vigente al momento in Italia?
«La cosa che mi convince di più del mio libro è il fatto che non sia viziato da un presupposto ideologico. Da laico penso che una legislazione più liberale sul tema sarebbe auspicabile. Da cittadino, insomma, me la sentirei di impegnarmi perché la legge fosse messa in discussione in questo senso».
E lo scrittore, che cosa pensa?
«Racconto la procreazione assistita per quello che è, ovvero la medicalizzazione invasiva di un aspetto molto intimo della vita di coppia, i cui esiti sono spesso incerti. Chi decide di intraprenderla deve esserne consapevole fino in fondo. Non è una passeggiata. Molte coppie si separano, dopo un fallimento».
Vorrebbe che un lettore, o una lettrice, chiudesse il suo libro e pensasse…
«...Che il senso ultimo del nostro stare al mondo non dipende dalla realizzazione di un desiderio, ma dalla passione che ci ha portato a concepirlo».
Lei non è (ancora) padre, ma è figlio. Il miglior consiglio che le hanno dato i suoi genitori?
«È stato un esempio costante: si può sorridere di tutto e rimanere persone serie».
Il suo libro sta diventando un film. Che effetto fa, sul set, vedere i personaggi immaginati muoversi, parlare, poterli toccare?
«Il film non è una trasposizione del mio romanzo, ne trae spunto. Paolo Virzì ha avuto la saggezza di piegarlo ai suoi scopi, che è poi il regalo più grande che qualcuno possa farti: prendere una cosa tua e farne qualcos’altro».
E lei, nel film, avrà un ruolo?
«Vesto per pochi secondi i panni di un cliente antipatico e scostante. Devo dire che mi sono divertito a mostrare i denti, anche perché sono un tipo accomodante e nella vita mi capita piuttosto di rado».
Il protagonista è Luca Marinelli (che abbiamo visto in “La solitudine dei numeri primi”). Mentre l’aspirante madre è Thony, una giovane cantante siculo-polacca. È vero che l’ha scoperta sul web e proposta al regista?
«Eravamo al telefono e lui mi raccontava di come vedeva il personaggio femminile. Ci vorrebbe una cantante, diceva. Una che ha mollato famiglia e paesello ed è venuta a cercare fortuna a Roma. Magari siciliana. Allora, mentre parlavamo, ho semplicemente digitato “cantante siciliana” su Google, e il computer ha fatto il miracolo. Abbiamo visto le foto di Thony - che in realtà si chiama Federica Johanna Victoria - su Myspace e ascoltato un paio di suoi brani. Un volto e una voce magnifici. Virzì l’ha scelta al volo. Detto questo, però, non me la sento di garantire che, digitando “amante perfetto” su Google, la lettrice di “Grazia” che ci sta leggendo in questo momento trovi il paradiso...».
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