Fotogallery Luciano Garofano: «Il delitto perfetto non esiste»
...
L’ex capo del ris di Parma Luciano Garofano ha passato una vita sulla scena del crimine. ora ha dedicato un libro alle “nuove vittime”. Chi sono? «Le donne».
L’ex capo del ris di Parma Luciano Garofano ha passato una vita sulla scena del crimine. ora ha dedicato un libro alle “nuove vittime”. Chi sono? «Le donne».
Quante volte, in tv, l’abbiamo visto entrare con i suoi uomini del Ris di Parma in camice bianco nelle varie “case del delitto”, e armeggiare con ogni sorta di diavoleria tecnologica.
Quante volte l’abbiamo sentito parlare di “reperti organici” e “traiettoria degli schizzi”. E quante volte avremmo voluto che ci spiegasse tutto delle indagini? La star della cronaca nera televisiva è Luciano Garofano, 58 anni, di cui 17 passati a dirigere il Ris (Reparti investigazioni scientifiche) di Parma. Ora è generale dei Carabinieri in congedo, fa consulenze per casi importanti (come quello di Sarah Scazzi), e scrive libri.
Lo incontro in un locale a Milano per parlare di Uomini che uccidono le donne (l’incipit: “Ogni otto minuti una donna nel mondo viene assassinata”), un viaggio attraverso i più celebri e controversi delitti italiani, da via Poma all’Olgiata, raccontati dal punto di vista di prove, reperti, strumenti che hanno inchiodato gli assassini. Risultato: dopo aver letto queste 242 pagine non riesco più a considerare un bucato... un bucato, ma il modo per rimuovere tracce.
L’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito è parsa quasi una decisione per insufficienza di prove...
«La corte si è basata più sulle conclusioni dei periti che sull’enorme lavoro della Scientifica. E ha dato un giudizio severo sulla scena del crimine: troppo contaminata, non affidabile. Succede ma, in questo caso, non corrisponde completamente al vero. Ci si è concentrati molto su coltello e reggiseno, non sono state valutate le tre macchie di sangue trovate vicino al lavandino nel bagno, di cui due a dna misto (di Amanda Knox e Meredith Kercher). Quando il dna è misto, di solito l’incontro è avvenuto contestualmente...».
Perché, nonostante la scoperta della prova del dna e dei nuovi strumenti scientifici, molti delitti restano impuniti?
«Sui media si finisce per parlare solo dei casi non risolti. Tantissimi, invece, vanno a buon fine. Pensi a quello dell’Olgiata: si è chiuso grazie all’esame del dna. Idem per quello di via Poma, anche se è stato celebrato solo il processo di primo grado. Siamo viziati dalle serie tv poliziesche: lì le indagini terminano subito e con successo. Ma la realtà è diversa. I progressi scientifici hanno aumentato molto i successi. Non abbiamo cifre italiane, ma in Gran Bretagna hanno calcolato che, con l’avvento del dna, i colpevoli smascherati sono quasi raddoppiati. E negli Stati Uniti, solo con la banca dati del dna, negli ultimi dieci anni, hanno risolto 1.500 casi».
Servirebbe anche da noi una banca simile?
«Si scoprirebbero molti più colpevoli. Gli autori dei reati sono spesso recidivi. Sapere com’è fatto il dna di tutti i detenuti italiani e raccogliere sistematicamente tutte le tracce dei reati sarebbe d’aiuto. Noi questa banca ce l’abbiamo dal 2009, ma non funziona ancora. Si aspettano dal governo regole, laboratori, archivi, tecnici».
Veniamo al libro. Perché aumentano le donne uccise?
«La loro percentuale sale rispetto al numero globale dei delitti italiani: siamo arrivati al 25 per cento. Uno dei motivi è che sono sempre di più gli omicidi familiari che colpiscono le donne. In secondo luogo, l’aumento della “quota rosa” di vittime va di pari passo con sofferenza sociale, forte disagio, crisi economica, fattori che si traducono in un’aumentata aggressività collettiva di cui la donna paga lo scotto. Basta vedere il proliferare dei casi di stalking e violenze verbali».
Cosa bisognerebbe fare per invertire questa tendenza?
«Vigilare di più. Non sottovalutare le minacce. Ascoltare le donne. E dare più peso a rapporti conflittuali, minacce, percosse che loro segnalano alle autorità. Dopo una denuncia di stalking, per esempio, bisognerebbe continuare a seguire la situazione. Quanti omicidi si sarebbero potuti evitare grazie a una maggiore attenzione...».
La scena del crimine: quante volte si sente dire che è così inquinata da risultare inutile ai fini dell’indagine...
«È un problema di tutte le polizie del mondo. Per salvaguardarla, andrebbero fatti investimenti per formare veri specialisti, ma anche agenti di primo intervento che arrivano prima degli esperti e preservano e documentano la scena. È necessario e urgente adottare severi protocolli e liste di controllo simili a quelle dei piloti di aerei. Solo così non si dimentica di fare le quattro cose fondamentali».
Quali sono?
«Isolare la scena del crimine, in modo che nessuno entri. Documentare subito con foto e video. Proteggere l’ambiente e far sì che nessuno sposti nulla (l’unica cosa permessa è il soccorso alla vittima, se viva). Servirsi di una squadra piccola e rodata, da tre a cinque persone, in cui ognuno ha un compito. E che non arrivi da troppo lontano: dovrebbe esserci un piccolo Ris in ogni provincia».
Perché alcuni casi di cronaca appassionano l’opinione pubblica e altri, più “interessanti”, passano inosservati?
«Dipende dal momento. A volte, contestualmente al delitto, accadono fatti mediaticamente accattivanti, e allora anche il più terribile killer passa in secondo piano. E poi contano gli “ingredienti”. Colpiscono gli omicidi che più negano la normalità: la villetta di Cogne, con vista su montagne stupende, come teatro di un omicidio atipico, quello di una madre che uccide il figlioletto. Infine, la penuria di altre notizie. Il caso di Chiara Poggi è esploso in modo così violento perché era Ferragosto».
Luminol, Crimescope. Che cosa sono e a cosa servono?
«Il primo è un composto chimico che emette luce quando si trova in presenza di emoglobina. Serve a scovare macchie di sangue che a occhio nudo non si vedono. Il Crimescope è una sorta di lampada che mette in evidenza anche altre tracce, sostanze organiche e impronte digitali. Nel libro racconto dei nuovi strumenti usati dalla Scientifica, ma nessuno di loro, separatamente, è miracoloso. Bisogna saperli usare e avere buona quantità di tracce a disposizione per avere successo».
Il caso di Erba, con i coniugi Rosa e Olindo: pensa che si debba ancora trovare il colpevole?
«Qui le prove scientifiche non hanno avuto il peso che hanno di solito perché la casa del delitto era bruciata e acqua e schiuma avevano invaso gli ambienti dopo l’intervento dei Vigili del fuoco. Ma dalle situazioni problematiche s’impara molto. Soprattutto che ci vogliono più soldi per avere indagini più efficienti. Che poi vuol dire più casi risolti, meno processi, meno lungaggini».
Crede nel riconoscimento fotografico?
«Bisogna andarci cauti, soprattutto quando dobbiamo riconoscere persone di altre etnie, perché i volti per noi sono tutti uguali. Il caso del parco della Caffarella, nel febbraio 2009, è emblematico. La vittima credeva d’aver riconosciuto i suoi assalitori romeni. Ma sbagliava. I colpevoli furono inchiodati dalla prova del dna. Anche testimonianze oculari e confessioni non vanno prese per oro colato, ma confrontate con altri dati».
Quale dei suoi casi irrisolti vorrebbe concludere?
«Unabomber. Ci abbiamo lavorato tanto...».
Quali sono i prossimi vecchi casi riaperti, che potrebbero riservarci delle sorprese?
«La morte di Pier Paolo Pasolini. Si sta lavorando per dimostrare che Pino Pelosi non era solo».
Il caso che le ha dato più soddisfazione?
«Quello del serial killer Donato Bilancia, 17 omicidi. Fermato per il perfetto gioco di squadra (tra noi tecnici, i carabinieri di Genova, i Pm) e per l’uso di tutto l’armamentario scientifico possibile: prova del dna, conoscenze balistiche per rintracciare i residui degli spari e identificare i proiettili, analisi delle impronte degli pneumatici della sua auto, perizie chimiche per smascherare la plastica del paraurti della sua Mercedes. Bilancia si sentiva infallibile: avrebbe ucciso ancora, tante volte».
Ha qualche sua deformazione professionale anche nella vita di tutti i giorni?
«Sono un attento osservatore anche nel privato. Mi è capitato di osservare in un salotto come sono disposte le cose o come brilla un pavimento. Mi è successo di schizzare acqua sullo specchio del bagno, e cercare di seguire la traiettoria delle gocce, pensando a un certo caso su cui stavo lavorando. Ma niente d’ossessivo, mi creda».
Non le mancano i Ris, dopo tanti anni di servizio?
«Sì. Ma continuo a fare quello che facevo con loro. Come consulente. E come presidente dell’Accademia italiana di Scienze forensi. Indago sempre, è una tendenza che ho... nel dna».
© Riproduzione riservata