Fotogallery Andrea Osvart: «Grazie Italia, ora tocca a Hollywood»
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Da Sanremo alle fiction tv, l’attrice ungherese Andrea Osvárt è diventata uno dei volti più noti dei nostri schermi. Adesso, però, ha deciso di trasferirsi negli Usa («Ho bisogno di nuove sfide e anche di cambiare aria: mi sono lasciata col fidanzato...). E ci saluta con un film forte e drammatico che difficilmente dimenticheremo.
Da Sanremo alle fiction tv, l’attrice ungherese Andrea Osvárt è diventata uno dei volti più noti dei nostri schermi. Adesso, però, ha deciso di trasferirsi negli Usa («Ho bisogno di nuove sfide e anche di cambiare aria: mi sono lasciata col fidanzato...). E ci saluta con un film forte e drammatico che difficilmente dimenticheremo.
«Ci sono giorni calmi qui, dove non ci diciamo niente. Lavoriamo, facciamo quello che ci dicono di fare. Ci passiamo vicino quasi con fastidio e abbiamo una tempesta dentro che non finisce mai», recita la voce fuori campo.
La telecamera stringe il primo piano sul volto di una giovane donna devastata da un dolore che non ha voce né perdono. È il bel viso di Andrea Osvárt (33 anni, nata a Budapest, ex fotomodella, laureata in Letteratura italiana e ungherese, già presentatrice di Sanremo e protagonista di numerose fiction italiane) nel ruolo di Claire, una madre colpevole di aver ucciso il proprio figlio nel film di Fabrizio Cattani Maternity blues .
Tanto di cappello. Ci vogliono cuore e coraggio per mettersi in gioco sul tema dell’infanticidio, un fenomeno che, secondo le statistiche, in Italia è in crescita.
Causato, nella maggior parte dei casi, da una grave forma di depressione post parto, una sindrome che colpisce più di 50 mila donne ogni anno.
La storia racconta la vita di quattro donne che scontano la propria pena in un istituto psichiatrico di detenzione e che non possono perdonare se stesse.
Andrea, è stato difficile immedesimarsi in Claire?
«Molto. Ma sono contenta di aver interpretato un ruolo così importante e impegnativo. Per riuscirci ho lavorato su di me, con l’aiuto di un’insegnante dell’Actors Studio. Lo scopo era quello di ricordare una “colpa” commessa nella mia vita della quale non potevo perdonarmi. Le donne che hanno ucciso il proprio figlio sono condannate dalla società, scontano la loro pena, ma la cosa più terribile è che la vera punizione se la infliggono da sole: è l’impossibilità di auto assolversi».
Ha trovato quell’episodio nel suo passato?
«Sì, e mai lo avrei immaginato. A causa della mia imprudenza, quando eravamo bambini il mio fratellino si ferì gravemente a un braccio. Certo, non posso fare paragoni con le protagoniste del film, ma la nostra mente ci fa soffrire e non sappiamo fino a che punto. Avevo completamente rimosso quell’episodio».
In che modo la mente affligge le protagoniste del film?
«Il cervello umano, per difendersi, mette in moto il cosiddetto processo di “denial”, di negazione dell’accaduto, perché lo spirito di sopravvivenza è più forte. Le protagoniste del film, quindi, a tratti vivono momenti di calma e normalità. Ma poi il buio, come un’onda, le travolge, la verità le attacca ferocemente, si ricordano di ciò che hanno fatto. Ed è devastante. Non c’è fine al dolore».
Le donne colpevoli di infanticidio in Italia sono ospiti in un istituto psichiatrico e detentivo a Castiglione delle Stiviere. Le ha incontrate?
«No, ma abbiamo visto e studiato le loro interviste. E il regista ha raccolto notizie, statistiche, testimonianze: ci ha dato tutte le informazioni necessarie».
In qualche modo si è chiesta se una cosa simile potrebbe capitare anche a lei?
«Certo. Che cosa è successo a queste madri? Se dovessi avere un figlio, come faccio a essere sicura di non cadere in depressione? Avrò il marito giusto, capace di aiutarmi? Il film ha il grande pregio di aprire gli occhi alle donne e a tutti su questa malattia».
Che cosa ha imparato da questa esperienza?
«Che la soluzione è parlare, comunicare. Io per prima, quando sono in difficoltà, tendo ad arrangiarmi da sola, ma non è giusto: bisogna sempre trovare il coraggio di chiedere aiuto, di dire “Sto male”, senza vergogna. Oggi le donne hanno modelli irraggiungibili: devono essere forti, autonome, belle e in grado di fare tutto. Ma non è così! Dobbiamo apprezzarci di più e trovare il coraggio di essere davvero noi stesse».
Il regista Fabrizio Cattani ha dichiarato in un’intervista che l’infanticidio andrebbe trattato come “concorso di colpa”, coinvolgendo la società. Le madri assassine, infatti, spesso provengono da famiglie degradate o hanno mariti violenti. È d’accordo?
«La società le condanna senza approfondire. Soprattutto senza prevenire. Questi fatti accadono all’improvviso e tutti ci meravigliamo. Ma la causa dell’infanticidio può essere curata alla fonte».
È un bel messaggio…
«Grazie, siamo molto fieri del film. Ci tengo a dirlo: abbiamo tutti lavorato gratis. Siccome non avevamo una grande produzione alle spalle, i soldi erano pochi e Fabrizio non fa film per diventare famoso, ma per raccontare storie importanti e utili, siamo diventati tutti (parlo di 40 attori) co-produttori della pellicola. Cioè abbiamo quote del film, ma non siamo stati pagati per aver recitato. Questo dimostra quanto abbiamo creduto nel progetto».
E i suoi progetti personali, invece, quali sono?
Vuoi sapere cosa ha risposto Andrea Osvart? Leggi l'intervista completa su Grazia n°19 in edicola dal 2 maggio.
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