Quando a Hollywood cercano l’attore giusto per interpretare un gangster, il primo nome è sempre quello di Benicio Del Toro. Ma lui, che ora arriva al cinema nei panni del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar, non si lamenta. «Perché», racconta a Grazia, «a farmi fare il buono già ci pensa la mia bambina»
Per anni non ci ha fatto caso, poi Benicio del Toro ha capito di avere un problema. «Mi sono reso conto che passerà molto tempo prima che mia figlia possa vedere un mio film senza esserne traumatizzata», ammette. La carriera dell’attore portoricano, 49 anni, un Oscar per Traffic nel 1997, è ormai segnata dai ruoli estremi che gli vengono affidati. L’ultimo in ordine di tempo, per i nostri schermi, è quello del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar, nella pellicola Escobar (nelle sale dal 25 agosto), diretta dal regista italiano Andrea Di Stefano. Ma il prossimo anno il divo sarà il cattivo anche nell’ottavo episodio della saga di Star Wars, dopo essere apparso già nel film spaziale I Guardiani della Galassia nel ruolo del Collezionista, potente cacciatore di oggetti rari, sempre in bilico tra bene e male.
Ma se Benicio del Toro sembra nato per farci venire i brividi sul grande schermo, lontano dal set l’attore si racconta in maniera molto diversa. E il merito sembra essere di sua figlia Delilah, 5 anni in agosto, avuta con la modella Kimberly Stewart, figlia di Rod, popstar cult degli Anni 70. «Se da ragazzo mi avessero detto che un giorno mi sarei ritrovato ad andare a Disneyland con Rod Stewart, non ci avrei creduto», scherza, riferendosi alle gite con il nonno in cui lo coinvolge la sua bambina.
Forse Star Wars sarà il film giusto da far vedere a Delilah. O sarà un narcotrafficante anche lì?
«E chi può dirlo? Vedremo, non ho mai interpretato un malvivente intergalattico. Scherzi a parte, forse il film non sarà adatto a lei, ma il mio sogno è portarla con me almeno alla première, sul tappeto rosso».
Che tipo di padre è?
«All’inizio ero piuttosto goffo. Ma adesso va decisamente meglio. Delilah e io passiamo molto tempo insieme e chiacchieriamo parecchio. Il suo modo di vedere le cose mi emoziona e mi sta trasformando».
In che modo?
«Be’, per prima cosa, adesso guardo moltissimi cartoni animati e musical. Tutti noi cambiamo gusti e carattere con gli anni che passano. Io con la paternità ho imparato a essere più paziente, ad accettare i ritmi altrui, a far scivolar via i momenti di rabbia e le delusioni. E poi ora so a memoria tutte le canzoni di West Side Story dopo aver guardato tante volte mia figlia ballarle davanti al televisore».
Crescere una bambina le ha insegnato anche qualcosa in più sulle donne?
«Certo, ho avuto la conferma che quando dicono “no” intendono “sì”. E viceversa. Quando Delilah passa i fine settimana con me capitano situazioni surreali. Prima mi dice: “Papà, lasciami sola”. Poi, mentre esco dalla stanza, mi guarda sbalordita: “Ma dove stai andando?”. Insomma ci fanno impazzire fin da piccole».
Lei e Kimberly, la madre di sua figlia, non siete mai stati una vera coppia.
«In realtà andiamo molto d’accordo. Con lei ho un ottimo rapporto, anche grazie a nostra figlia.»
Come va la sua vita sentimentale? Ha una nuova relazione?
«Sull’argomento relazioni preferisco non sbilanciarmi. È uno di quei campi in cui procedo a fari spenti, con molta cautela, e non mi va di raccontare troppo. Anche perché farei ingelosire i miei cani, sono molto possessivi».
Perché?
«Sapete come sono gli animali, credono di essere loro i padroni. Ho una femmina di San Bernardo, Ella, e un pastore australiano, Bosco. Ogni volta che devo vestirmi bene, per un servizio fotografico o un’intervista, lo capiscono. Appena metto la giacca è come se si scambiassero un segnale d’intesa e si dicessero: “Dai, saltiamogli addosso, conciamolo per le feste, di più, ancora”. Mi fanno impazzire, ma alla fine non resisto: li perdono sempre».
Per lei è più facile perdonare o dimenticare?
«Non saprei. Per noi esseri umani non è mai tutto bianco o nero. A volte penso che ci sono famiglie costrette ad affrontare esperienze terribili. Per esempio, genitori che vedono uccisi i propri figli e che, nonostante il dolore, riescono a parlare di perdono. Sono convinto che, più che perdonare, abbiano la straordinaria forza di lasciar correre via il dolore».
Pablo Escobar, il narcotrafficante che interpreta al cinema, negli Anni 80 portò il suo Paese alla guerra civile e fu responsabile di sequestri e attentati. Come ci si prepara a impersonare un uomo così?
«In questo caso non è difficile, perché ci sono filmati, articoli di giornale, la sua vita è documentata in modo dettagliato. Io, poi, sono stato aiutato da persone che lo hanno conosciuto direttamente».
Lei spesso ha portato sul grande schermo criminali di origine ispanica. Non le pesa questo pregiudizio che lega i latinos alla malavita?
«Potrei interpretare anche per tutta la vita il ruolo del gangster o del sudamericano, l’importante è che i miei personaggi non finiscano per somigliarsi tutti. In questo i miei punti di riferimento sono Al Pacino e Robert De Niro: quando hanno iniziato la loro carriera interpretavano mafiosi italiani, ma erano soprattutto ruoli complessi. L’origine italiana diventava in un certo senso un particolare secondario E comunque, quando entri nei panni di un malavitoso, o di un mafioso, come nel loro caso, la vera difficoltà è trovare il lato umano di questi mostri, renderli interessanti da un punto di vista psicologico».
Non le vengono mai gli incubi, considerati i film che interpreta?
«Non porto mai le pistole a casa. Quello che voglio dire è che, una volta battuto il ciak, finisce tutto lì: non mi sono mai svegliato nella notte sudato e urlante. Di solito cerco di rilassarmi ascoltando musica, leggendo o andando a giocare a basket. L’importante è non deprimermi. L’obiettivo principale sul lavoro è andare a dormire pensando: “Bene, non vedo l’ora di alzarmi presto, andare sul set a lavorare con il sorriso”».
Ci sta facendo scoprire il suo lato estroverso e solare.
«La mia filosofia di vita è molto semplice. Ho un approccio positivo e ottimista nei confronti della gente che incontro. Per me tutte le persone sono, come posso dire, innocenti fino a prova contraria. Ritengo che dobbiamo vivere allo stesso tempo come se dovessimo morire domani e tra 100 anni».
Di recente ha prestato il volto anche a iniziative sociali. Ce n’è una di cui va più fiero?
«Insieme con altri attori di Hollywood ho dato il mio contributo a una campagna patrocinata dal vicepresidente Joe Biden per sensibilizzare le ragazze delle università sulle violenze e l’importanza di denunciarle. Il messaggio che deve arrivare ai giovani è questo ed è assolutamente chiaro: “Se una ragazza non ti dà il suo consenso, o se non è in grado di darlo, allora è stupro”».
Lei ormai è un veterano di Hollywood, ma il successo non è arrivato subito.
«Ho passato anni a guidare su e giù per le strade di Los Angeles in cerca di una parte o per sostenere un provino. E questo mentre chi mi conosceva, e forse mi voleva bene, non faceva che ripetermi di lasciar perdere. Alla fine sono stato fortunato, ma ammetto che recitare mi piace così tanto che, piuttosto, avrei fatto la fame come mimo in strada, ma non avrei mai rinunciato alla mia passione».
Ai giovani che le chiedono un consiglio su come diventare attori, che cosa suggerisce?
«Naturalmente dico a tutti di lasciar perdere. Poi, quando i più si scoraggiano e abbandonano la sfida alle prime difficoltà, a chi rimane aggiungo un’altra lezione per me molto importante».
Cioè?
«Che recitare è prima di tutto imparare a essere rifiutati, a prendersi le porte in faccia. Se ti laurei in Medicina, studierai tanto, ma poi sai che bene o male farai il dottore. Se vai a scuola di recitazione, dovrai impegnarti e sudare tantissimo e, nonostante questo, potresti non trovare mai un ingaggio decente per anni. Niente è scontato».
Lei è nato a Porto Rico, l’isola caraibica che potrebbe diventare il 510 Stato degli Stati Uniti. Lei si sente americano o portoricano?
«La situazione del mio Paese è strana e ci sono tante ingiustizie ancora da sanare. Per esempio gli abitanti di Porto Rico hanno la cittadinanza statunitense da quasi 100 anni, però non possono votare alle elezioni presidenziali. Io, invece, che sono di Porto Rico ma mi sono trasferito in California, posso. Non mi sembra sensato, credo che le leggi debbano essere più flessibili e adattarsi alla complessità della realtà di oggi».
Crede che i confini valgano meno di una volta?
«Non lo so, per me le bandiere non contano mai molto. Almeno finché non iniziano le Olimpiadi e allora fai il tifo per il tuo Paese».
L’ultima frase di Benicio ha senso, i Giochi cominciano il 5 agosto ed è perfetta per salutarci. La prossima volta che ci rivedremo, probabilmente sarà per Star Wars. E a quel punto, spero proprio che potrà farsi accompagnare sul red carpet da sua figlia.
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