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Kaarina Kaikkonen: “La mia arte è una forma di conforto”

Home » Casa » Design » Kaarina Kaikkonen: “La mia arte è una forma di conforto”

Kaarina Kaikkonen: "La mia arte è una forma di conforto"

foto di Sara Schifano Sara Schifano — 2 aprile 2012

Fotogallery Kaarina Kaikkonen: “La mia arte è una forma di conforto”

  • Kaarina Kaikkonen 0038 Kaarina Kaikkonen 0038 Kaarina Kaikkonen, Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • Kaarina Kaikkonen 0045 Kaarina Kaikkonen 0045 Kaarina Kaikkonen, Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • ritratto Kaikkonen.Ph.C Dario Lasagni ritratto Kaikkonen.Ph.C Dario Lasagni L'artista Kaarina Kaikkonen in mezzo all'installazione Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • Kaarina Kaikkonen 0073 Kaarina Kaikkonen 0073 Kaarina Kaikkonen, Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • Kaarina Kaikkonen 0091 Kaarina Kaikkonen 0091 Kaarina Kaikkonen, Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • Kaarina Kaikkonen 0058 Kaarina Kaikkonen 0058 Kaarina Kaikkonen, Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • Kaarina Kaikkonen 0065 Kaarina Kaikkonen 0065 Kaarina Kaikkonen, Are We Still Going On? - Collezione Maramotti
  • Departure 2003 Departure 2003 Kaarina Kaikkonen, Departure, 2003, VIII Biennale dell’Avana
  • We Are All In The Same Boat We Are All In The Same Boat
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È quel che pensa l'artista finlandese Kaarina Kaikkonen. Fino al 28 ottobre la Collezione Maramotti di Reggio Emilia ospita l’installazione Are we still going on?

Fino al 28 ottobre la Collezione Maramotti di Reggio Emilia ospita l’installazione Are we still going on? dell’artista finlandese Kaarina Kaikkonen. Le sue installazioni sono quasi sempre in grande scala, pensate appositamente per il luogo in cui verranno inserite. I materiali prediletti da quest'artista sono i vestiti, la carta e in generale elementi semplici di uso quotidiano, poiché nella sua visione ogni oggetto ha un valore, specialmente quelli che racchiudono una memoria.

Non sono una sentimentale, ma quando ho incontrato Kaarina alla Collezione e mi ha fatto salire su una scala per osservare l’installazione dall’alto mi sono emozionata. Immaginate di sentirvi abbracciati dall’umanità intera...

L’aspetto site-specific è una qualità chiave del tuo lavoro. È un’attitudine che hai avuto sin dall’inizio della tua carriera? Quando pensi a un nuovo lavoro lo fai a partire da un luogo preciso?
Sì, mi sono diplomata in Accademia nel 1983 e appena due anni dopo ho iniziato subito a lavorare con il site-specific. L’idea di una nuova opera viene sia dallo spazio che da me. In primo luogo ho bisogno di percepire lo spazio, di capire come mi parla. Così lo ascolto e individuo le necessità dello spazio secondo il mio punto di vista. In secondo luogo ci sono io, il mio passato e la mia esperienza di artista che  si riversa inevitabilmente nel processo. Quindi viene tutto un po’ insieme: l’architettura, la storia, le tensioni, i materiali, il momento in cui accade...

Qui a Reggio Emilia hai lavorato con uno spazio che ha una memoria precisa, così l’uso di abiti comune a molte delle tue installazioni assume un valore ancora più simbolico.
Gli abiti che sono già stati indossati da qualcuno mantengono un po’ dell’individuo a cui appartenevano, così ho la sensazione che queste persone siano coinvolte anche se non esistono più. In questo lavoro la memoria del luogo gioca un ruolo importante, trattandosi di una ex fabbrica di vestiti, così l’installazione parla del passato di questo spazio ma anche della mia personalità, di come mi sento in questo spazio, fattore che dipende dal mio passato e dai miei pensieri.

La sensazione che ho avuto davanti alla tua installazione è quella di un grande abbraccio, incredibilmente confortante...
Sì, è una sensazione molto bella. Quando ci entro anch’io mi sento al sicuro e profondamente felice. Questo mi rende molto fiera, il fatto di essere riuscita a far emergere questo sentimento.

È questa sensazione di agio che cerchi con le tue opere?
È probabile, questa è una domanda importante perché in effetti io ho bisogno di conforto e la mia arte è sempre riuscita a darmelo. Come artista tendi a fare l’arte di cui hai bisogno, che in un certo senso ti completa e ti rende felice. Anche se questo sentimento non è permanente e per questo quando passa si è pronti per la prossima tappa.

Ciò che definisce una forma è un contorno. So che questo concetto ha un’accezione molto personale nel tuo lavoro.
Sì, l’idea di definire un contorno ha a che fare con il fatto che la mia identità dipende da ciò che mi circonda. In alcune situazioni si ha la sensazione che non ci siano limiti, sembra di essere molto grandi e collegati al mondo ma in altre situazioni ti senti molto piccolo, nel senso che il tuo contorno non è chiaro e definito. La variabilità di questo valore è qualcosa mi interessa moltissimo.

L’installazione ha la forma di una barca e una scelta cromatica precisa (azzurro, bianco, rosa). Che significato hanno queste scelte?
Il colore individua una parte femminile e una maschile. L’idea è che le due parti discutano tra loro e allo stesso tempo siano necessarie l’una all’altra perché questa barca immaginaria possa andare avanti in un equilibrio perfetto.

Questo è collegato a una tua esperienza personale?
Sì, penso ai miei genitori, al fatto che non potrei essere senza di loro. Questo è solo un punto di vista. Più ampiamente penso a un dialogo tra generazioni, al genere umano intero. Mi viene in mente anche una citazione biblica pensando al genere umano raccolto in una barca. Ma anche una riflessione su uomini e donne, se stiamo costruendo il nostro futuro insieme o meno, se siamo tutti sulla stessa barca o no...

I materiali che usi sono semplici, quotidiani: vestiti, carta e anche carta igienica...
Sì, di solito sono anche cose brutte, che la gente butta via perché non usa più. Questo è fondamentale nel mio lavoro, non voglio usare materiali costosi e preziosi perché penso che qualsiasi cosa abbia un valore. È una forma di rispetto della vita e in particolare di chi è povero. Inoltre credo che non gettare ciò che ci appartiene significhi anche non gettare via le proprie radici.

Mi piace il fatto che il tuo lavoro abbia un carattere molto positivo, l’idea di una necessità di comunicazione genuina tra esseri umani...
Esatto! È proprio una riflessione sul rendersi conto di essere uno di loro, parte di questo gruppo. E in qualche modo devi trovare una chiave per essere parte di questo gruppo, altrimenti finisci per soffrire. E la chiave è accettare sé stessi.

Quello della Collezione Maramotti è il primo appuntamento di Kaarina Kaikkonen in Italia. Il 14 aprile inaugurerà una nuova installazione al MAXXI di Roma, intitolata ‘Towards Tomorrow’.

© Riproduzione riservata

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