Stefano Accorsi: «E io non mi accontento»
L’incontro con la donna che gli ha fatto venire voglia di cambiare, la nuova paternità e il confronto più duro, quello con se stesso. A Grazia Stefano Accorsi parla del momento in cui ha dato una svolta alla sua vita. Perché, come ha imparato sul set del film di Ligabue, chi sia abitua alle proprie insoddisfazioni è perduto.
«Una mattina in cui sono rimasto a dormire fino a tardi non la ricordo più. Quando c’è una famiglia da seguire e tanti progetti da realizzare, il tempo non basta mai». Parola dell’attore Stefano Accorsi, 46 anni, alla guida della sua auto, di ritorno dalla montagna. I giorni in famiglia durante le vacanze sono stati pochi, a Milano lo attendono le prove senza sosta dello spettacolo teatrale La favola del principe che non sapeva amare, che debutta il 14 gennaio a Tortona (in provincia di Alessandria) e che andrà avanti almeno fino ad aprile. «Il mio mestiere è così, ci sono periodi di pausa e poi momenti di lavoro intenso. Solo che io non sono capace di rimanere fermo», scherza, ma neppure troppo.
Ha due film nelel sale, Made in Italy di Luciano Ligabue e A casa tutti bene di Gabriele Muccino, uscito il 14 febbraio. Poi ci sono le letture dei grandi classici su Sky Arte Hd. Ma soprattutto c’è la famiglia, sua grande passione, composta dai figli avuti dalla relazione con l’attrice Laetitia Casta, Orlando, 11 anni, Athena, 8. C’è la moglie Bianca Vitali, 27 anni, sposata due anni fa dopo un incontro sul set della serie 1992. E soprattutto c’è lui, Lorenzo, il figlio arrivato 8 mesi fa che negli scatti pubblicati su Instagram lui chiama “il superbiondo”.
Nonostante abbia vissuto per molti anni a Parigi e adesso si sia trasferito a Milano, Accorsi non ha perso quella leggera cadenza emiliana. Complice anche il film in uscita.
È al cinema nel film Made in Italy. La prima volta che ha lavorato con Ligabue era il 1998 e il film era Radiofreccia. In che cosa siete cambiati?
«Sono passati vent’anni, allora avevo 26 anni ed ero più inesperto e insicuro, non parlavo troppo perché temevo di essere ridicolo. Stavolta la comunicazione tra noi è stata più semplice. E poi essere entrambi emiliani ci ha aiutato a intenderci».
Conosciamo Ligabue più come cantante che come regista. Com’è dietro la macchina da presa?
«Ha le idee chiare e l’obiettivo in mente. Niente è lasciato al caso, si documenta, ha uno sguardo sul mondo stimolante e originale. Con Luciano sono più gli sguardi, i gesti che contano rispetto alle parole. Come nei suoi film, il linguaggio non verbale è uno stile di vita. È una grande dote farsi capire parlando poco».
Da bravi emiliani finivate a cena in qualche buon posto?
«Le riprese finivano sempre a notte fonda, era difficile andare a cena. Però abbiamo passato dei fine settimana bellissimi, quello sì».
“Cambia tutto, cambia lavoro, città, amici, ma soprattutto cambia te stesso invece di aspettare i cambiamenti”. È una frase che dice il suo personaggio Riko, nel film. L’ha pensato anche lei qualche volta?
«Certo che sì. Non è facile però cambiare, soprattutto quando di mezzo ci sono affetti, figli e famiglia. C’è però un’altra frase di Riko che mi ha fatto riflettere di più».
E qual è?
«“Non fartelo andare bene, è un attimo farsi andare bene tutto”. È importante non adattarsi a qualcosa che non ci piace, perché all’insoddisfazione ci si abitua. Invece la felicità va conquistata, anche se costa fatica arrivarci».
Lei non crede nel destino?
«Sì, credo però che vada aiutato. La felicità non arriva se non parte da dentro. Ed è la determinazione a fare il resto».
La sua storia personale lo racconta. Ha superato una separazione difficile ma oggi sembra un uomo felice.
«Non è stato facile, ho chiesto aiuto, anche a uno psicologo. È stato fondamentale cambiare punto di vista. I problemi vanno guardati in modo diverso, se dopo mesi non si superano. Non si può rimanere in eterno in una situazione che va male, anche se costa fatica lasciarla andare».
Ci sono altre frasi che ogni tanto le tornano in mente?
«“Non sono pensieri carini da fare”. È la frase che diceva Carlo, 30enne in crisi protagonista dell’Ultimo bacio (pensando alla 18enne per cui aveva perso la testa, ndr). Gabriele Muccino è capace di far dire ai suoi personaggi frasi estremamente vere, di una limpidezza cristallina».
Interessante.
«Non fraintenda. Anche a Freccia, il giovane sognatore di Radiofreccia, sono legato. “Te sta’ dentro che qua fuori è un brutto mondo”, diceva a una vecchietta di paese che lo spiava dalla finestra. Qualche volta mi sento quello “qua fuori”».
C’è un rimprovero a cui è grato?
«Me lo ha fatto il regista Pupi Avati. Avevo 20 anni, ero stato chiamato per il secondo provino, mi sentivo forte. Sarei dovuto andare negli Stati Uniti per un paio di mesi a girare. Un giorno ci convoca in tre e dice: “Qui ci sono quello che ha fatto il provino più bello e quello più brutto”. Mi guarda e mi dice: “Tu, non hai fatto quello più bello”».
Però alla fine Avati la scelse.
«Con me c’era Luciano Federico, attore di teatro. Per me era stato lui il più bravo. Ma credo soprattutto che Avati volesse dirmi: “Vola basso e non montarti la testa”. Mi è servito».
A proposito di rimproveri si dice che il regista Muccino non sia tenero coi suoi attori.
«Gabriele pretende sempre una connessione emotiva con i suoi personaggi, e per ottenere quel risultato, arriva a essere molto duro. È molto fisico. È capitato che mi abbia ripreso dicendo: “Si sente che questa frase la dici da attore”. E dopo vari tentativi gli dai ciò che chiede. Siamo al terzo film insieme, lavorare con lui è stimolante».
Qual è il ruolo in cui si è sentito più coinvolto?
«Loris, di Veloce come il vento. Quando mi sono lavato le mani dal grasso dei motori e ho fatto la barba, dopo due mesi di quella parte, ero felice. Il film era ispirato a una storia vera di un pilota geniale che non è riuscito a liberarsi dalla dipendenza della droga. In tutti noi c’è un lato oscuro. La disponibilità emotiva richiesta era alta, il regista Matteo Rovere ha fatto un grande lavoro».
Quando si hanno questi ruoli a casa come ci si comporta?
«Si danno degli avvertimenti prima. È difficile tornare in famiglia ed essere sereni. La vita reale ha la precedenza ma certi coinvolgimenti non si abbandonano facilmente».
Nei film interpreta spesso personaggi cinici, sembra più affascinato dalle fragilità che dai vincenti. Perché?
«Amo i perdenti che alla fine superano le difficoltà interiori, si redimono e vincono. Sono interessato alle crepe dei personaggi che raccontano la loro umanità, mi avvicinano, mi strappano un’emozione o un sorriso. Tra i film visti da giovanissimo e che mi sono rimasti dentro c’è Reds, con Jack Nicholson e Warren Beatty. C’è una scena di quel film in cui il leader, Beatty, dimostra di rimanere tale nonostante la sua donna lo abbia tradito con l’altro, interpretato da Nicholson. E proprio quando arriva la scena definitiva, quella in cui i due parlano e Nicholson dovrebbe rivelargli la verità, lui non ci riesce per rispetto. Quel film racconta bene le fragilità maschili e allo stesso tempo mi ha fatto rivedere il concetto di vincente».
Anche nella vita le piacciono gli antieroi?
«Dipende, è difficile, richiedono più energie. Da alcuni personaggi dei miei film, se li conoscessi nella vita, forse scapperei».
Le fragilità l’allontanano o la rendono più empatico rispetto a chi si mostra perfetto?
«Senza dubbio le difficoltà avvicinano. Anche se gli amici tendo a sceglierli solari e risoluti».
E qual è il personaggio tanto lontano da lei che però le ha dato molto?
«I soggetti di Ferzan Özpetek. Pochi giorni fa sono andati in onda Saturno contro e Le fate ignoranti e ho ricevuto molti messaggi inaspettati. Fa piacere quando una tua interpretazione aiuta qualcuno a stare meglio. Anche se è lontano dal mio modo di essere, di Ferzan mi affascina l’interesse per il mistero delle cose della vita».
C’è un biglietto da visita che custodisce con grande cura?
«Quello di Pietro Gamba. Un nome che le dirà poco ma che ha una storia incredibile. A vent’anni si era trasferito in Bolivia per non fare il servizio militare e si è trovato ad aiutare i bambini di una comunità poverissima che gli morivano tra le braccia per il morbillo. A quel punto è rientrato in Italia, si è laureato in Medicina ed è tornato lì ad aiutarli. L’ho conosciuto grazie alla mia agente, Graziella Bonacchi, che oggi non c’è più. Lui ha una Fondazione e cerco di aiutarla».
Non sarà difficile per lei dare vita a una storia come questa. Le serie di successo 1992, 1993 e 1994 nascono da una sua idea.
«Non creda che sia facile proporre storie e vederle realizzate. Occorre perseveranza. Inizialmente volevo scrivere la storia dell’imprenditore ed ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ma non trovavo nessuno che volesse produrla. Ho iniziato a bussare a molte porte e alcuni mi hanno detto di no. Poi ho trovato il produttore Lorenzo Mieli sulla mia strada e una porta si è aperta».
Lei continua a bussare alle porte quando le dicono di no?
«Sì, se credo in una mia idea non mollo».
Qualcuno si sarà pentito di non averle aperto visto che 1992 è stato un successo esportato in molti Paesi.
«Sì, ma è andata bene così. Anzi, doveva andare così. In questo caso ha scelto il destino».
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