Michael Fassbender: «Se rischio mi diverto di più»
Corre in auto da pilota, fa surf con gli squali e gli piacciono i personaggi complicati. Come il poliziotto alcolizzato con cui è al cinema. A Grazia l’attore Michael Fassbender confessa di essere semplicemente un uomo onesto con se stesso. Ma sempre oltre ogni limite.
«Sono appena atterrato da Miami, dove ho corso un’altra gara per la Ferrari Challenge Series». Michael Fassbender è in forma smagliante, e il fisico asciutto è sottolineato dai jeans seconda pelle che indossa con un maglione leggero, in un look totalmente blu. Questo esordio di conversazione si collega a ciò che mi dice poco dopo: «Mi fido di quello che sento nella pancia, quando leggo qualcosa. Se dovessi sintetizzare come scelgo ciò che faccio, direi che di base cerco il rischio, i ragionamenti vengono dopo». Ecco spiegata la passione dell’attore per le quattro ruote, da quando era un ragazzo e correva con i go kart. Ed ecco spiegate anche le sue scelte sullo schermo.
Ma la cosa che più mi incuriosisce è che non vedevo Michael Fassbender così sexy dagli anni in cui è stato Gustav Jung in A Dangerous Method, ovvero dal 2011, prima che il tornado di film e di successo lo travolgessero. Sarà merito anche dell’attrice Alicia Vikander, sua futura moglie, ma non è l’unico cambiamento della sua vita, come presto mi racconterà l’attore.
Giusto per fare un riassunto: prima del 2007, a 30 anni compiuti, il ruolo per cui questo attore irlandese era più famoso era uno spot della birra Guinness. Poi, partendo da Hunger, sul famoso sciopero della fame dell’attivista nordirlandese Bobby Sands, ci ha regalato ogni possibile declinazione del disagio fisico e psicologico e due candidature agli Oscar (per 12 anni schiavo, nel 2013, e per Steve Jobs, nel 2015).
Ci incontriamo allo Ham Yard, un esclusivo hotel di Soho, Londra. Ho appena visto il suo nuovo film, L’uomo di neve, diretto dal regista Tomas Alfredson, in questi giorni al cinema. Nei panni di Harry Hole, un poliziotto parecchio dipendente dall’alcool, ma che ha ancora dalla sua un fiuto bestiale, Fassbender da solo vale il film.
C’è da aggiungere che la pellicola è tratta da uno dei bestseller di Jo Nesbø (in Italia è pubblicato da Piemme), uno degli scrittori di crime story più apprezzati al mondo. «Di nuovo un uomo poco in pace con se stesso», mi dico dopo aver visto il film. E se penso che da 12 anni schiavo ha girato qualcosa come 17 film (il 18° è il nuovo episodio della saga di X-Men, terminato da poco in Australia), ed è diventato anche produttore, mi chiedo come possa avere un simile aspetto. Ed è da qui che parte la nostra conversazione.
L’ultima volta che l’ho incontrata mi ha detto che aveva bisogno di tempo per se stesso: ha rispettato il suo desiderio?
«Sono un uomo di parola, vengo da un anno esatto di vacanza».
Prego?
«Ho appena terminato X-Men a Montreal, in cui sono di nuovo Magneto, ed è stato l’unico lavoro che ho accettato quest’anno. Per il resto ho staccato completamente, ed è stato grandioso».
Per uno come lei, che in pochi anni ha girato 50 film, non dev’essere stato facile staccare.
«È stato così bello che mi sono chiesto: “Perché non l’ho fatto prima?”. La risposta è che ci sono ancora vacanze nei miei piani».
Che cos’ha fatto in questo periodo lontano dai set?
«Moltissimo surf sulle onde più alte, dalla Francia del sud al Sudafrica».
Non ha paura degli squali?
«Mi preoccupano molto, diciamo così. Ma la verità è che quando sei lì, dopo un po’ ti abitui. Lasci la tua immaginazione sulla spiaggia, esci in mare aperto e non ci pensi più».
Il freddo di Oslo, dove ha girato il film di Alfredson, le piace?
«Adoro stare in Norvegia, è stato un regalo. Il clima secco e gelido mi dà vigore. E poi ho provato per la prima volta a sciare, è stato grandioso, soprattutto sono riuscito a finire le riprese illeso, senza rompermi niente».
Che cosa le ha fatto accettare un film come L’uomo di neve?
«Ho incontrato Alfredson nel 2010, la prima volta, poco prima delle riprese di La talpa. Ho dovuto rifiutare la sua proposta perché stavo girando Fish Tank, ma il nostro incontro mi è rimasto dentro. Quando mi ha mandato la sceneggiatura sono stato contento di poter accettare, e ho iniziato a leggere i libri di Nesbø, tutti tranne L’uomo di neve: volevo capire da dove veniva il mio personaggio. Non è un super eroe, è un uomo pieno di difetti che ho trovato molto interessante».
Harry è un uomo che parla pochissimo.
«E la cosa mi piace molto».
Ma quanto le assomiglia?
«Dipende da con chi sono, dalle circostanze. E forse anch’io dovrei cucirmi la bocca, ogni tanto».
Il personaggio di Harry ha delle dipendenze, ma a suo modo protegge l’ex fidanzata e il figlio della donna: anche lei come il ruolo che ha nel film, è un uomo responsabile?
«Invecchiando sto migliorando. È vero che il mio personaggio sente la responsabilità di cui parla, ma c’è anche egoismo in lui. È ossessionato dal lavoro, ha così tanti pensieri per la testa che beve per silenziarli. Ma quello che trovo più interessante di lui è che è onesto con se stesso».
E lei che tipo d’uomo è?
«Penso di essere abbastanza onesto con me stesso, sì».
La spaventa interpretare uomini così impegnativi? Penso a quest’ultimo che viene da un bestseller, ma anche a Macbeth, o a Steve Jobs.
«Ci metta anche Magneto, che ha molti ammiratori. Certo che c’è un po’ di timore, ma un giorno ho preso una decisione importante in merito: avrei avuto un sano rispetto e anche un doveroso distacco per questo genere di personaggi. Anche perché ti attraversa una tale mole di informazioni, tra libri e sceneggiature, che se non ti muovi un po’ in autonomia non riesci a lavorare».
Vuol dire che improvvisa molto?
«Ho bisogno di essere libero di fare ciò che voglio. Io studio, arrivo sul set con tutta la sceneggiatura in testa a memoria. E con le idee che mi sono venute facendo i compiti, che vengano accettate o meno».
Sul set è un po’ un ribelle?
«Quando arrivo voglio girare subito, senza provare. Questo è il mio desiderio, ma poi mi adatto a ciò che vuole il regista, perché ha la visione d’insieme».
Quella che ha dimostrato è un’etica ferrea.
«Vengo da una scuola durissima, in teatro. Si immagini che cosa significa, alla fine di ogni lavoro, trovarsi davanti tutti gli insegnanti, in stile plotone d’esecuzione: uno alla volta ci analizzavano da cima a fondo. Ricordo ancora l’ansia tremenda dei miei compagni, aspettando di sentire se avevamo fatto tutto bene o tutto male. È stato quello il momento in cui ho deciso che avrei avuto una mia misura per valutare ogni situazione, e oggi quando scendo dal palcoscenico mi chiedo se sono andato bene, se ero coinvolto, oppure se non c’ero con la testa. Cercando ovviamente di essere onesto con me stesso».
Dopo tutti questi anni, si sente cambiato?
«Ho un approccio più rilassato alla vita e, parlando di lavoro, riesco a lasciarmi tutto alle spalle quando torno a casa. Del resto ho fatto così tanto che questo era l’unico modo sano per vivere. Pensi che non mi ricordo più nemmeno le battute dei miei personaggi. Chissà, forse più avanti torneranno nella mia mente, per il momento mi va benissimo così».
Come attore sente la pressione di essere considerato un uomo bello?
«Sembra che ora faccia parte del nostro lavoro, io me ne frego abbastanza. Faccio attività fisica solo per sentirmi bene nel corpo e perché la mente resta pulita e mi sento pieno di energie. Corro spesso, e se proprio devo, salto anche con la corda. Poi ci sono le solite cose, come usare le macchine. Lo odio, ma devo ammettere che funziona».
Prima parlavamo di mare, so che da poco ha comprato casa a Lisbona.
«Dopo 10 anni a Londra avevo bisogno di un cambiamento drastico, e mi sono trasferito in Portogallo. Sono molto felice, mi sento rigenerato».
Se n’è andato dalla Gran Bretagna per colpa della Brexit?
«Credo sia una situazione molto triste, non amo le frontiere, non mi piace attraversarle e ciò che rappresentano. Capisco perché la gente abbia votato l’uscita dall’Unione Europea. Comprendo l’insofferenza verso l’austerità e i soldi prestati ai Paesi più deboli. Ma mi piace l’idea dell’Europa come comunità. Ai giovani è meglio lasciare libertà di muoversi, di lavorare dove vogliono. Solo così secondo me si prevengono i conflitti e le guerre. Direi che sono due ottime ragioni per non alzare barriere».
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