Matt Damon: Voglio essere il mio eroe
Alla Mostra del Cinema di Venezia Matt Damon sarà il protagonista del film d’apertura e anche dell’ultima regia del suo amico George Clooney. Ma a Grazia l’attore confessa di pensare già al suo prossimo ruolo: quello di Bob Kennedy, il politico che prometteva speranza a un’America divisa. «In questo momento», dice, «ne avremmo un gran bisogno»
Sul grande schermo della 74ª Mostra del Cinema di Venezia lo vedremo stravolto e con gli occhiali tenuti insieme con lo scotch, oppure pronto a diventare alto poco più di 10 centimetri per salvare la Terra dal sovrappopolamento.
Con questa sua capacità di trasformarsi, sarà la vera star di Venezia. Perché se c’è un vincente a Hollywood, quello è Matt Damon. Lo ricordano in pochi, ma i suoi film, che hanno incassato a livello mondiale più di sette miliardi di euro, da tempo rendono più di quelli di Tom Hanks, Tom Cruise e Brad Pitt. «Se ho un difetto è quello dell’avidità cinematografica: voglio lavorare sempre con i migliori. Non ne ho mai abbastanza», mi dice l’attore quando ci mettiamo a citare Ridley Scott, Paul Greengrass, George Clooney, Zhang Yimou e gli altri registi famosi con cui ha collaborato negli ultimi tempi. «Faccio questo lavoro da più di 20 anni e sento di non aver ancora finito».
Alla Mostra del Cinema Matt arriva con due film molto attesi: il fantascientifico Downsizing (nelle sale dal 21 dicembre), il primo film di Alexander Payne dopo le sei nomination agli Oscar per Nebraska, aprirà la rassegna il 30 agosto e Damon sarà un uomo che accetta di farsi rimpicciolire. Due giorni dopo, con l’amico e regista George Clooney e l’attrice Julianne Moore, Matt presenterà la commedia nera Suburbicon, (nelle sale dal 14 dicembre), scritta da Joel ed Ethan Cohen e ambientata in un quartiere residenziale americano nel 1959.
Matt, che cosa significa per lei lavorare con l’amico George Clooney?
«È talmente divertente che non sembra nemmeno un lavoro. Suburbicon è un gran film e George sul set è sempre di ottimo umore: siccome ha già fatto tutto lui, preparando benissimo le scene, si permette di scherzare e alleggerire il clima. Non ci sono mai sorprese: devi solo recitare la tua parte. Credo che l’affetto reciproco emerga anche dal film».
La vedremo anche in Ocean’s Eight, il seguito al femminile del fortunato Ocean’s Eleven?
«Farò una piccolissima parte, non so nemmeno se sono autorizzato a parlarne. Ma sono così eccitato che ormai, be’, sapete che ci sarò».
Lei ha lavorato tantissimo negli ultimi anni, persino in Cina. Non le viene mai voglia di prendersi una pausa dal set?
«A volte ne sento il bisogno: negli ultimi due anni ho sovraccaricato la mia agenda. Ma potevo dire di no a Sopravvissuto - The Martian di Ridley Scott? O rifiutare un’offerta del regista Zhang Yimou o i film della serie di Jason Bourne? Sono stato in apnea per un po’, ma credo che ne valesse la pena: è stato difficile, ma fattibile. E, in tutto questo recitare, l’anno scorso sono riuscito anche a produrre una piccola gemma».
Manchester By The Sea, candidato a sei Oscar?
«Esatto, quel film mi ha dato così tanta soddisfazione che ho intenzione di andare avanti come produttore. Ora sto lavorando con il regista Nikolaj Arcel e, nel film RFK, interpreterò il candidato alle primarie presidenziali del 1968 Bob Kennedy».
Due anni fa, durante un’intervista, aveva detto: «Se qualcuno trova il modo di produrre un film su Bob Kennedy, io ci sono». Quel qualcuno era lei!
«Alla fine, sì. Robert Kennedy mi ha sempre affascinato. I suoi discorsi erano incredibili. Certo, ogni film biografico è sempre un grosso rischio».
Anche i film politici non sono facili. A proposito, la comunità di Hollywood negli ultimi mesi si è impegnata molto a combattere omofobia e razzismo. Ma molti trovano che, in questi anni dominati dagli attentati dell’Isis, non sia stata altrettanto efficace nel contrastare l’islamofobia. Lei che cosa ne pensa?
«Penso che dovremmo cominciare a riconoscere che la grande maggioranza dei musulmani è fatta da nostri fratelli e sorelle, che non sono i capri espiatori dei mali del mondo».
Tuttavia il presidente americano Donald Trump, con le sue leggi contro l’immigrazione da alcuni Paesi a maggioranza islamica, sembra pensarla diversamente.
«Il nostro è un Paese che è stato letteralmente costruito da immigrati e la nostra storia di americani viene ancora scritta ogni giorno da migranti. Per questo fatico a capire come si possa dire a qualcuno: “Da questo momento tu e quelli come te non possono entrare”».
In questi giorni, dopo gli incidenti a Charlottesville, in Virginia, sono riaffiorate forti divisioni razziali.
«In tutto il mondo c’è un rigurgito nazionalistico, era in qualche modo prevedibile: è una delle classiche conseguenze di una crisi economica. Ovviamente c’è chi ha cercato di approfittarne politicamente, soffiando sul fuoco. Però credo che, se teniamo alta la guardia e dimentichiamo per un momento i concetti di Destra e Sinistra, possiamo accorgerci che c’è una convergenza di interessi comuni molto ampia. Quello che ci unisce è più forte di ciò che ci divide. È scritto nella nostra storia».
Tra gli americani c’è poca soddisfazione verso l’operato di Trump. Manifestare e protestare è la risposta giusta?
«Credo che opporsi in questo modo serva: i politici, per sopravvivere, hanno bisogno di consenso. In questo sono molto simili a noi attori: devi sempre guadagnarti un nuovo lavoro. L’America in questi mesi ha marciato in tante città, lo hanno fatto persino mia moglie e le mie figlie, ed è stato un forte messaggio pacifico. Credo che questi movimenti andranno avanti a lungo».
Quando è stato in Cina, ha capito qualcosa di quel Paese?
«La sensazione più forte che ho avvertito è quella di un luogo che ha davvero una passato millenario: noi americani, rispetto ai cinesi, siamo un “bip” temporale a confronto. Arrivi in Cina pensando di provenire dalla culla della civiltà, e scopri che quella che chiami Storia è in realtà una brevissima parentesi dal loro punto di vista. Ti senti piccolo, e anche un po’ solo».
Se penso a tre dei suoi migliori successi, Salvate il soldato Ryan, Interstellar e Sopravvissuto - The Martian, ha sempre dovuto affrontare la solitudine. Ha mai provato questo stato d’animo nella sua vita?
«No, non certo al livello di un uomo che viene abbandonato su un pianeta lontano o di un soldato che viene imprigionato dal nemico. In tutti e tre i casi, però, ho ben presente che deve esserci qualcosa, anche un pensiero folle, capace di tenerti in vita».
A proposito di compagnia, la sua famiglia la segue sempre sui set?
«Abbiamo stabilito che non sto mai lontano da casa più di due settimane, altrimenti vengono con me: mia moglie e le nostre figlie (hanno dai 18 ai 6 anni, ndr). È stato il caso della Cina: dovendo trasferirmi per sei mesi, abbiamo dovuto trovare insegnanti per le bambine ed è stata allestita una piccola “classe” su ogni set».
Lei è uno degli attori che fanno guadagnare di più le case di produzione. Quindi parliamo di soldi.
«Vuole chiedermi del mio prossimo ingaggio?».
No, ma mi dica che cosa pensa delle grandi disuguaglianze di stipendio tra uomini e donne nel cinema.
«Ci sono tanti cambiamenti in corso, mi auguro ci sia più giustizia. Per ogni film ci sono infinite contrattazioni: a volte devi ridurti lo stipendio, altrimenti salta tutto; altre volte ti offrono una cifra che non puoi rifiutare. Di sicuro, e basta guardare le solite classifiche per capirlo, ci sono tante attrici di talento che guadagnano più di me. Resta il fatto che si girano sempre più pellicole maschili che femminili. L’unica risposta che ho è impopolare: è ancora la domanda a determinare l’offerta».
E comunque, i soldi danno la felicità?
«A me la danno mia moglie e le mie bambine: l’innocenza con la quale le piccole guardano al mondo mi dà speranza nei momenti in cui sono più pessimista. A volte mi consolo osservando la realtà attraverso i loro occhi. È l’unico modo che ho per ricaricarmi e affrontare il domani dopo una brutta giornata».
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