Matilde Gioli: Se mi ami, non mi fermare
Ha cominciato a recitare quasi per caso e, dopo un film con Paolo Virzì, è diventata il volto più promettente del cinema italiano. Ma Matilde Gioli è anche una ragazza che, da quando ha perso il padre, ha dovuto tenere duro.
Matilde Gioli manda un messaggio con ora e luogo del nostro appuntamento. E poi, a raffica, ne arriva un altro: «Ho sparato un posto a caso. Decidi tu dove e quando, ti raggiungo in motorino, ovunque». Una frase dove c’è tutto: la sua età (27 anni), la sua avversione a stare nella parte quando è nella vita (è attrice), il suo essere una che va veloce e si adatta a tutto. Una che va dritta al “tu”, tanto per cominciare.
Entriamo in un bar e lei fa quello che di solito fanno le mamme: estrae il cellulare e chiede di poterlo tenere muto, ma ben in vista. «Ti dispiace? È per i miei fratelli», dice. «Da quando è morto il papà (nel 2013, ndr), mi sento la capofamiglia e voglio essere sempre reperibile per loro».
Quanti anni hanno?
«Mia sorella 17, i miei fratelli 19 e 28. Lo so, sono un po’ ansiosa, ma l’importante è non farlo pesare a loro, non stare troppo addosso, ma esserci sempre».
Vivete insieme?
«No, me ne sono andata di casa un anno dopo che il papà è mancato. Ho trovato un appartamento piccolissimo vicino alla casa di famiglia: un modo per stare comunque con loro, anche se, in realtà, il lavoro mi porta via a lungo e spesso».
Il 6 aprile sarai al cinema protagonista di The Startup di Alessandro D’Alatri, il film che racconta la storia vera della nascita di un portale per chi è in cerca di lavoro, in cui interpreti la direttrice della rivista dell’università milanese Bocconi. E, a partire dall’11, ti vedremo su Rai Uno nella serie Di padre in figlia.
«E sto per cominciare le riprese di un altro film. Non avevo idea che questo lavoro mi avrebbe portato così tanto in giro. Non avevo neppure idea di quali scelte avrei fatto: continuare a recitare? Smettere? O magari mi mollerà lui, questo lavoro, per primo, chissà».
Una laurea in Filosofia: avevi in mente un’altra vita. E invece eccoti attrice, quasi per caso.
«No, no: proprio per caso. Ma, ti dirò, non è tutta questa svolta: sono sempre pronta all’idea che tutto possa cambiare di colpo. Un po’ per le esperienze negative, i dolori forti, che ho affrontato. Un po’ per attitudine; sono sempre pronta ai ribaltoni. Sono molto elastica, ho un carattere liquido, prendo la forma delle cose che succedono. Può accadere di tutto. Io ci sto dentro, o almeno ci provo. Mi stavo laureando in Filosofia, volevo andare in America a studiare Neuroscienze in laboratorio, ma non sapevo se sarei stata in grado, se mi avrebbero presa, se mi sarei potuta permettere di star lontano così tanto. Ero in ascolto della realtà».
E la realtà, a sorpresa, ha detto: cinema! Il regista Paolo Virzì ti ha dato una parte nel suo Il capitale umano. Avevi mai pensato di fare l’attrice?
«Mai. Nemmeno per sbaglio. Frequentavo l’università, ero istruttrice di nuoto sincronizzato: studiavo, insegnavo e mi allenavo. Odiavo l’idea di chiedere soldi ai miei, non l’ho mai fatto. Sai, sono stata quel tipo di bambina che, in vacanza in montagna, mette sul marciapiede giornalini vecchi per venderli e tirare su qualche soldo.
Ero già in modalità guadagno, autonomia. Da ragazza davo lezioni di greco e latino, mi offrivo come hostess alle fiere, facevo girare la voce: “Chi ha un lavoro per me?”. Mia madre un giorno ha visto questo volantino in cui si cercavano comparse fra i 20-25 anni per il film di Paolo Virzì.
Io proprio quel giorno dovevo accompagnare mio fratello in palestra, in un posto non troppo lontano a quello in cui si tenevano le audizioni. L’ho mollato lì e sono andata al provino. Eravamo mille persone e tutto durava un secondo: “Come ti chiami? Che cosa fai nella vita? Avanti il prossimo”. Era aprile. In settembre sono stata richiamata Mi hanno detto: “Vorremmo rivederti, ma questa volta dovresti proprio preparare un pezzo di copione”. Chi, io? Io che nelle recite ho sempre fatto l’albero?».
Perché quasi tutti quelli che conosco hanno fatto l’albero nelle recite a scuola?
«Perché i ruoli da principessa erano pochi e chi riusciva a prenderseli stava sulle palle a tutti, diciamolo».
E tu che cosa hai fatto di fronte alla prospettiva di andare ben oltre la modalità albero?
«Ho usato la mia attitudine liquida. E ci ho provato».
Hai cercato l’attrice che c’è in te?
«Ma va’. Ho pensato: “Leggo il copione e imparo, quel che sarà, sarà”. Durante il provino mi sentivo recitare e pensavo: “Sei ridicola, sei penosa”. Poi il regista mi ha detto: “Mi serve proprio questo: una ragazza della tua età. Fai te stessa, che va bene”. La mia grande fortuna è stata questa. Poi mi sono ritrovata su un set fantastico. I protagonisti, il trucco, lo sceneggiatore, il regista: erano tutti grandissimi. Io sono curiosa, se sono in una situazione nuova, divento una spugna: guardo, ascolto, cerco di imparare. E ora eccomi qui: attrice».
Che cos’altro hai scoperto su quel set?
«Che non mi monto la testa. Gli attori vengono trattati come persone speciali. Ma io, cresciuta con tanti fratelli, ho imparato presto a tenere a bada l’ego. Anche quando sul set mi capitavano cose assurde: c’era il sole e qualcuno mi copriva con l’ombrello».
Ragazza liquida, ma pure solida.
«Oh, sì. Quello che mi auguro è di non tradire mai l’educazione che ho avuto, fatta anche di umiltà. È facile montarsi la testa, se ti trovi in una situazione in cui ti dicono: “Se vuoi il prosciutto di Parma, vado a prendertelo a Parma”».
Hai perso qualcosa in questa nuova vita?
«Perso no, ma rischio di peggiorare alcuni miei difetti. Io sono una casinista e questo lavoro è un casino. La disciplina dello sport e gli orari all’università mi aiutavano a mettere ordine. Perché io sono una che non deve essere mai lasciata allo stato brado. Adesso mi è difficile darmi delle regole: viaggio tanto, mangio sempre fuori, in certi periodi dormo ogni sera in un posto diverso».
La notorietà non ti pesa?
«Ma dai, non c’è. Ogni tanto mi fermano per una foto, niente di che».
Che cosa ti porti dietro della tua vita di prima?
«Quando affronto un ruolo nuovo, arrivo con il mio bagaglio, lo apro e tiro fuori quel che mi serve. Se devo imparare il copione, penso a come studiavo al liceo. Se devo trovare la concentrazione giusta, ripesco la mia esperienza sportiva. Riciclo quello che sono stata, lo utilizzo per fare quello che faccio adesso».
Il lavoro ti è capitato in un età in cui sapevi già chi eri?
«A dire il vero non so bene chi sono nemmeno adesso. Che cosa mi piace davvero? Mangiare sul divano la sera oppure apparecchiare per bene la tavola? Boh, chissà che tipo sono, alla fine. A volte, per lavoro, mi trovo contemporaneamente alle prese con tre ruoli diversi e questo mi fa venire un po’ il panico».
E come lo supera?
«Uso il moschettone e mi attacco a una certa idea di me».
Moschettone?
«La mia famiglia».
Sul tuo account di WhatsApp c’è scritto: papà. Hai voglia di parlarne o è una cosa che ti fa star male?
«È una cosa preziosa. Il mio papà si è ammalato e, in pochissimo tempo, ci ha lasciato. Io non avevo ancora 23 anni. I miei fratelli piccoli lo hanno avuto per così poco: diventare adulti senza un padre è dura. Sento la sua mancanza? Cerco di non soffermamici troppo, perché mi fa star male. Non posso pensare che non ci sia più la sua faccia. E neanche la sua voce, le sue mani».
Qual è un vostro ricordo bello?
«La montagna. Papà mi ha abituato a camminare in quota ed era orgogliosissimo di avere una figlia che aveva voglia di andare con lui, fino alla cima. Veniva a svegliarmi al mattino e mi diceva: “Amore, se vuoi continuare a dormire...”, e io saltavo giù dal letto tutta contenta. Poi, in macchina, lo guardavo guidare: era felice.
Mi piaceva dargli questa soddisfazione e avere un momento tutto nostro in cui vedevamo cose che, quando si tornava a casa e mangiavamo tutti insieme, sapevamo solo io e lui. Uno spazietto privilegiato che il mio papà riusciva a ritagliarsi con tutti i figli: uno alla volta. Sapeva come prenderci. Quando penso che lui non ci sarà in tutte le cose importanti della mia vita, mi attacco al ricordo del suo sguardo orgoglioso, in montagna. Quando camminavamo da ore e lui mi diceva: “Riposati, se sei troppo stanca”. E io andavo avanti».
Dove pensi che sia adesso?
«Penso che sia con me, quando vado in montagna, da sola. Faccio le nostre passeggiate, salgo e salgo, sento il mio fiatone e sento anche il suo. E, quando arrivo su in cima, mi viene l’istinto di dire: “Eccoci”. Sento che è con me anche quando vado a correre, una cosa che facevamo insieme. Corro pensando che lui sia dove era sempre: alla mia sinistra. Oggi, se qualcuno corre con me, gli chiedo di stare a destra, per tenere il posto libero per papà».
Vuoi che cambiamo argomento, tirare il fiato?
«Guarda che anche quando sono triste, sono comunque una positiva, una innamorata della vita».
A proposito di amore…
«Situazione molto delicata, non posso dire niente».
Nessuna domanda: di’ quel che vuoi dire.
«Posso dirti che non è facile starmi a fianco. Sono una molto entusiasta, ma sono un cavallo pazzo. Ci sono un paio di cosette che mi sono indispensabili».
Tipo?
«La complicità assoluta».
Chiamala cosetta.
«E poi ci deve essere libertà, ho bisogno di una persona che non mi metta le briglie, ma che corra con me, perché è innamorato del mio bisogno di essere lasciata andare. Tanto io, nel mio prato, torno sempre».
Complicato.
«Sì, ma se trovi uno così, è bellissimo».
Uno come, per l’esattezza?
«A me piacciono gli uomini che istintivamente pensano prima a te e poi a loro stessi. Perché vuol dire che sono forti e che non hanno paura dell’amore».
È ora di andare, Matilde.
«Sì, ma sai che questo bar è proprio carino? Ci voglio tornare».
Con l’uomo-forte?
«Ma no, con la mamma. Amo farle vedere le cose belle».
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