Da sempre è un’attivista eco che si batte per abiti e gioielli sostenibili. Ora, durante la fashion week di Milano Livia Giuggioli, moglie dell’attore Colin Firth, cercherà di cambiare le abitudini degli italiani quando si vestono. E a Grazia spiega come condurrà la sua battaglia buona.
Ormai vive a Londra, ma va spesso nella casa di famiglia in Umbria. Viaggia moltissimo, come moglie dell’attore inglese Colin Firth, e come imprenditrice della Eco-Age, la società di consulenza che aiuta le aziende a diventare ecosostenibili. E quindi passa con disinvoltura dai red carpet al green carpet. Livia Giuggioli, diventata 20 anni fa la signora Firth, si sta preparando per il servizio di moda, ovviamente eco, di Grazia.
Ma pensa anche a un grande evento che la vede protagonista: The Green Carpet Fashion Award, il progetto sulla moda ecosostenibile di cui lei è madrina e che debutterà al Teatro La Scala di Milano il 24 settembre, in piena settimana della moda. E mentre indossa un abito da sera stupendo mi dice «è stato realizzato con le mele, l’avrebbe mai detto?».
Poco trucco e capelli sciolti la incontro all’Hotel Cipriani, a Venezia, sull’isola della Giudecca.
Che cosa significa ecosostenibilità nella moda?
«È una parola inflazionata, a volte usata a caso. Io non ho mai separato il capitale ambientale dal capitale umano, l’ecologia non può essere divisa dalle persone: rintracciare le mani di una filiera spesso vuol dire perdersi in Paesi remoti dove è stata spostata una parte della produzione. È importante, perciò, ribadire l’importanza del nostro made in Italy».
Non tutti possono permettersi consumi ecosostenibili: i prodotti “eco” e “bio” sono molto più cari.
«È cambiata la nostra cultura. Quando io ero una ragazza era impensabile uscire per una passeggiata e tornare con un capo di abbigliamento nuovo. Non esistevano negozi che vendevano top a 5 euro, abiti a 20 e giacche a 45. Allora, mettevi i soldi da parte e investivi in qualità. Si andava a comperare il cappotto all’inizio della stagione, o un vestito, ed era un evento. Ci si pensava, si guardavano le vetrine, si confrontavano i prezzi, ci si assicurava che la stoffa fosse buona.
Come dice Carlo Petrini di Slow Food, oggi dobbiamo certificare la qualità, una volta non ce n’era bisogno. Ora è necessario documentare che un prodotto sia stato realizzato nel modo giusto, senza lo sfruttamento di bambini e lavoratori. Il mio armadio è pieno di abiti vecchi. È meraviglioso indossare le memorie. Lady Amanda Harlech, musa di John Galliano e alter ego di Karl Lagerfeld, dice: “Quando apro il mio armadio mi ricordo che con quel vestito ho baciato un uomo, con un altro ho trascorso una giornata meravigliosa, con un altro ancora ho ballato a una festa”. Ecco, con i nostri figli dobbiamo cercare di risvegliare questi valori che non si trovano in abiti acquistati di corsa a pochi euro e poi dimenticati».
La chiamano la pasionaria green. Lei è così da sempre?
«Sono cresciuta in una famiglia dove si è sempre parlato di politica. Poi, ho conosciuto Colin e anche lui si è sempre interessato del sociale, dell’ambiente, delle ingiustizie di pochi verso molti. Con i nostri figli è lo stesso. A tavola parliamo di quello che succede nel mondo».
Ma che cosa le ha fatto scattare l’urgenza di salvare il pianeta, anche attraverso la moda?
«È stato durante il viaggio in Bangladesh, come ambasciatrice di Oxfam, l’organizzazione internazionale che si dedica a ridurre la povertà nel mondo. Mi hanno portato a visitare una fabbrica di vestiti, una di quelle considerate di buon livello per come venivano trattati i dipendenti. All’ingresso c’era una guardia armata di fucile e all’interno migliaia e migliaia di donne a capo chino per 12-14 ore, le sbarre alle finestre, il caldo insopportabile.
Producevano 100-150 capi all’ora e guadagnavano 64 dollari al mese. Avevano il permesso di fare due pause per andare in bagno, non esisteva nessun tipo di assicurazione e di tutela. Se si ammalavano non venivano pagate, se si facevano male sul posto di lavoro non venivano risarcite. Era il 2008. Poi sono tornata nel 2013: morirono più di mille persone, per la maggior parte donne, per il crollo del Rana Plaza, a Dacca, la capitale del Bangladesh, nel più grave incidente in una fabbrica tessile nella storia dell’umanità. Ma una volta che lo vedi, non puoi più fare finta di niente e ignorare quello che c’è dietro alla maglietta che ti è costata qualche euro».
Pensa che tutti noi viviamo nell’indifferenza?
«No, tutt’altro. Noi ci preoccupiamo dei rifugiati, del rispetto dei diritti delle donne, di una povertà che non dovrebbe più esistere. Ci dispiace, ma pensiamo che noi, come semplici cittadini, possiamo fare poco. Invece, tutto ruota intorno a noi e ai nostri consumi, a ciò che compriamo, per vestirci e per nutrirci».
È difficile in una società che ci ha conformato all’usa e getta ribaltare le abitudini. Tutto questo richiede attenzione, cultura e tempo. Come si fa a spiegarlo a una figlia adolescente?
«Con i ragazzi non è facile, è vero. Lo vedo con i miei figli (Luca, 16 anni, e Matteo, 14, ndr) che però sono maschi e perciò con loro è meno complicato. Ma per le ragazze è davvero un problema, ho letto che in un sondaggio la maggior parte di loro ha dichiarato di vergognarsi a comparire in una foto su Instagram con lo stesso vestito. La “fast fashion”, la moda veloce, ha rivoluzionato le nostre vite. E noi italiani, che spesso siamo arrivati tardi su certi fenomeni, saremo anche gli ultimi a stancarcene. Negli ultimi 20 anni sono cresciute generazioni convinte che comprare quello che ti pare e poi buttarlo in un angolo dell’armadio sia un diritto. Bisogna sensibilizzare i nostri figli per garantire anche ai nostri nipoti un mondo più vivibile».
Suo marito Colin non fa mai qualcosa di ecologicamente scorretto?
«Non parlo della mia famiglia. Non l’ho mai fatto. Tutte le volte che viene pubblicata qualche indiscrezione sulla nostra vita privata è un’invenzione. Hanno scritto che io cucino le lasagne fatte in casa, falso. Hanno pubblicato che siamo due “pastasciuttai”, mai detto».
È stanca di essere la signora Firth?
«Quello mai. Proprio mai. Ma sono anche Livia Giuggioli e proteggo la mia vita familiare».
Lei ha fondato la Eco-Age, società di consulenza che aiuta le aziende e le grandi maison, da Chopard a Gucci, a diventare più sostenibili. È difficile convincere le aziende a investire in tal senso?
«Chopard è uno dei primi marchi con cui la Eco-Age ha lavorato. Partendo da una domanda: i gioielli e gli orologi che arrivano ai nostri artigiani svizzeri da chi vengono maneggiati prima? A differenza dei diamanti e dell’oro, per le gemme colorate, rubini, smeraldi, opali, non esiste alcun tipo di certificazione. Chopard ha cominciato un grande lavoro di verifica delle miniere e di tutti i loro fornitori. Non c’è un altro marchio di gioielleria che lo fa».
Come convince le aziende a iniziare un percorso di sostenibilità con la sua Eco-Age?
«Con un ragionamento semplice. La moda regge su due fattori: i tessuti e le persone che ci lavorano. Se non fai niente per tutelare l’ambiente quei tessuti nell’arco di dieci anni non li avrai più. E i lavoratori, se sfruttati e sottopagati, prima o poi si ribelleranno».
Qual è la difficoltà più grande che incontra?
«La percezione del tempo. Molte aziende credono che la sostenibilità si ottenga in un attimo, non è così. Ci vogliono anni per raggiungere dei risultati, un passo alla volta. Un altro punto cruciale è la comunicazione per sensibilizzare tutti i dipendenti, per fare squadra. Per me i rapporti umani restano al primo posto, anche sul lavoro. Per esempio nel mio ufficio nessuno nella pausa pranzo si prende un panino o si porta qualcosa da casa. Abbiamo una cucina e pranziamo tutti insieme: è severamente vietato mangiare alla scrivania davanti al computer. Lo scambio di idee avviene a tavola. Come faccio in famiglia».
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