Lea T: «Ora sono una donna tre volte più forte»
Fino a dieci anni fa, sfilava come modello nel corpo di un maschio. Poi lo stilista Riccardo Tisci l’ha scelta, lanciata e Lea T ha fatto i conti con la sua femminilità. In questa invervista confida ciò che finora non aveva rivelato a nessuno
Questa non è un’intervista come le altre. Perché con Lea T, 36 anni, figlia del celebre calciatore brasiliano della Roma e della Sampdoria Tonino Cerezo, musa di Riccardo Tisci e modella che fino a poco più di dieci anni fa pensava di essere un maschio, è quasi impossibile usare il classico schema domanda-risposta.
Il suo racconto è un intenso e ininterrotto flusso di coscienza. Quando sei accanto a lei è come se la sua energia ti travolgesse. Le barriere si infrangono e improvvisamente tu non sei più la giornalista che segue il solito canovaccio, ma entri nel suo mondo.
Difficile spiegarlo, ma quando l’ascolti percepisci quasi fisicamente il dolore che ha provato quando ha scoperto di essere una trans, l’amore inesauribile che sente per gli animali, la rabbia per le ingiustizie che colpiscono i suoi amici.
Durante il nostro incontro abbiamo riso, ma anche pianto lungamente insieme. Molti la chiamano empatia, ma secondo me il grande talento di Lea è qualcosa di più: è la capacità di farti diventare in poco tempo una parte di sé.
Non ha filtri e se tu l’accogli a cuore aperto, lei condivide emozioni profonde e sconvolgenti come forse neanche una lunga amicizia riesce a fare. Perché la sua sensibilità fuori dal comune all’inizio ti annichilisce, poi ti contagia e infine ti trascina in storie che non hai mai vissuto. Ed è come se vedessi davvero i suoi professori del liceo o camminassi tra le fiamme del parco nazionale brasiliano che oggi sta cercando di difendere dagli incendi dolosi.
Abbiamo appuntamento a cena a Milano, in un ristorante sui Navigli. Quando entra nel locale mi colpisce la sua figura perfetta, le lunghe gambe avvolte in un paio di jeans aderenti, le mani eleganti, il viso bellissimo con le sopracciglia quasi scolpite e gli occhi che sanno parlare ancora prima della sua voce.
Ha combattuto per se stessa, adesso è schierata contro l’indifferenza del governo brasiliano nella difesa delle tribù indigene e nella salvaguardia del parco nazionale Chapada dos Veadeiros, a 250 chilometri da Brasilia, dove vive.
Nella sua battaglia è riuscita a coinvolgere modelle come Gisele Bündchen, Alessandra Ambrosio, Adriana Lima. Che cosa la spinge a intraprendere crociate quasi impossibili?
«Credo sia la mia natura. Ho sempre difeso chi era in difficoltà. Quando ero piccola è stato anche un problema. A scuola, per esempio, se un professore si scagliava contro qualcuno solo perché era meno intelligente e preparato, io prendevo le difese del malcapitato. Salivo sulla sedia e dicevo: “Lei sta alzando la voce contro questo mio compagno che non ha fatto niente”. Mia madre si arrabbiava. Una volta mi hanno bocciato perché rispondevo troppo agli insegnanti e ho preso 6 in condotta».
Che scuole ha frequentato?
«Il liceo artistico. Ero molto brava a disegnare, ma sono sempre stata eccentrica, un po’ fuori dagli schemi. Ho iniziato a studiare a Genova, dove giocava papà, poi quella città ha iniziato a starmi stretta e a 17 anni sono andata a vivere a Firenze, da sola. Mi legavo alle persone più strane, emarginate: era come se mi avesse dato fastidio la loro esclusione. E mi venivano a prendere all’uscita gli amici artisti di strada o le drag queen (artisti omosessuali o transessuali, che si esibiscono in spettacoli di varietà travestiti da donna, ndr). Insomma, ero un’alternativa».
È allora che ha capito di sentirsi prigioniera nella sua vita da maschio?
«No, molto dopo. Da adolescente vivevo nel mio mondo, generosa con tutti: la mia parte femminile era molto evidente, ma non me ne rendevo conto. Sapevo difendermi e nessuno mi prendeva in giro».
Non se ne rendeva conto o semplicemente rimuoveva la sua femminilità, perché non vogliamo mai vedere ciò che ci destabilizza?
«L’ho rimossa a lungo. Avevo un papà molto famoso, che manteneva tutta la famiglia. Inconsciamente sapevo che se fosse emersa la verità, sarebbe scoppiato un caso. Per questo negavo a me stessa la mia identità».
Quando ha dovuto prenderne atto?
«Avevo 23 anni e avevo iniziato a lavorare come modello. Ho cominciato a viaggiare per il mondo, fino a quando sono arrivata a Miami dove ho conosciuto delle ragazze. Avevo i capelli lunghi e si creavano situazioni imbarazzanti per tutti. Nei locali i camerieri mi chiedevano: “Signorina, che cosa desidera?”, oppure qualcuno, indicandomi, diceva alle persone che erano con me: “Carina, me la presenti?”. Un giorno le mie amiche mi hanno affrontato di petto: “Tu sei esattamente come noi, una donna. Non possiamo più chiamarti Leo. Devi riflettere su questo”».
Quali sono state le sue reazioni?
«Piangevo disperata: il mondo mi era crollato addosso. La mia parte mistica e spirituale è nata lì, perché ero spaventata, non sapevo come avrei potuto dirlo ai miei genitori, perché sono cresciuta in una famiglia tradizionale e cattolica. Già quando vivevo a Firenze avevo lavorato in un negozio di tatuaggi e piercing e avevo iniziato a conoscere una realtà molto distante dalla mia: ragazze che subivano violenze in famiglia, trans scappate da casa perché rinnegate dai genitori. C’era tutto un universo di depressi, violentati, picchiati che non immaginavo esistesse».
Aveva paura che quello potesse essere anche il suo destino?
«Diciamoci la verità: in Italia una ragazza trans e di colore è considerata una escort. L’attivista Vladimir Luxuria ha aiutato ad abbattere molti pregiudizi, ma il transessualismo è sempre stato un tabù, una realtà offuscata. C’è stata l’attrice Eva Robin’s negli Anni 90, una delle donne più belle di questo Paese, ma rappresentava un mito inarrivabile. Io non ero perfetta come lei. Che cosa avrei fatto se i miei genitori mi avessero abbandonata? Sarei stata costretta a prostituirmi? Trasformarsi in una donna è un processo lungo e costoso. Le mie amiche trans mi dicevano che non ce l’avrei mai fatta, perché, pur essendo una donna forte, non ho la corazza di chi è abituato fin da piccolo ad affrontare violenza e mancanza d’amore».
Quanto costa il processo per cambiare il proprio corpo?
«Dipende da che cosa vuoi fare, se per esempio il seno cresce solo prendendo gli ormoni o se hai bisogno dell’intervento chirurgico, se decidi di cambiare sesso o no. In ogni caso si parla di decine di migliaia di euro. Io sono stata seguita da un medico italiano».
Chi l’ha aiuta a uscire dalla disperazione quando ha capito che lei era in realtà Lea, una donna?
«Lo stilista Riccardo Tisci. Eravamo diventati amici inseparabili da quando avevo 21 anni, lui era tornato a Milano dopo aver finito la Central Saint Martins College of Art and Design di Londra. Ai tempi avevamo pochi soldi, d’estate giravamo con il suo motorino per la città deserta divertendoci come pazzi. Da Miami, l’ho chiamato in lacrime e gli ho detto la verità. Due giorni dopo mi ha proposto di scattare la sua campagna e sua madre mi ha detto: “Tu sarai sempre una Tisci”. La T che segue il mio nome è un omaggio a Ricky».
E alla fine i suoi genitori come hanno reagito?
«Con un abbraccio. I miei fratelli mi hanno detto: “Finalmente l’hai capito”. Insieme con mia madre ho pianto. Il papà l’ho raggiunto al telefono, perché i miei genitori sono separati da quando ho 12 anni. “Più donne ho in casa, meglio è. Bello avere una figlia in più”, mi ha risposto sereno».
Dopo il caso Harvey Weinstein si parla sempre di più di molestie sulle donne, ma quelle che subisce un transessuale sono ancora più violente. Lei è sempre riuscita a difendersi?
«No. Nella mia fase di transizione da un sesso all’altro, mi ricordo di un uomo in metropolitana che ha iniziato a insultarmi davanti a tutti: “Fai schifo”, “Sei un travestito orrendo”. È stato uno shock, perché fino a quel momento avevo vissuto in una bolla d’amore. Improvvisamente ero odiata e per molto tempo questo mi ha annichilito: non avevo neanche la forza di salire su un autobus. Anche molti giornali, quando la mia identità è diventata pubblica, mi hanno attaccato. Si diceva che mio padre aveva generato un’aberrazione della natura e non si era ucciso solo perché era un grande uomo».
Come si sente adesso?
«Mi definisco una donna, ma sono anche fiera del mio passato transessuale: ne sono così orgogliosa che me lo tatuerei in fronte, per quanto ne sono felice. Non rinuncerei a nessuna lacrima che ho pianto lungo il cammino. E questo ti rende una donna tre volte più forte, perché va contro il mondo».
Ha un compagno? Come vive l’amore?
«Sono single: l’amore per noi è una questione ancora più complicata. Sono talmente sicura della mia identità, che questo può smontare le sicurezze di molte persone cresciute con paradigmi precostituiti. Credo di mettere un po’ in soggezione alcuni uomini. Trovare un compagno è più difficile, ma non impossibile».
Le piacerebbe avere un figlio?
«In Brasile le single possono adottare e potrei farlo. Non ho quella esigenza un po’ egoriferita di essere mamma, ma mi piacerebbe molto aiutare un bambino, insegnargli a camminare e poi lasciarlo andare per la sua strada. Ma so anche che è una enorme responsabilità ed è necessaria una grande stabilità economica che non mi sembra di avere. Forse anche perché sostengo un’infinità di associazioni e la mia banca ha detto: “Adesso Lea fermati, non puoi aiutare tutti”».
Oggi il suo cuore è però tutto concentrato sul parco Chapada dos Veadeiros. Fino a pochi giorni fa era in fiamme. Ha lanciato una campagna digitale per difenderlo, #SalveOCerrado (“salva la savana tropicale”), coinvolgendo le più celebri modelle brasiliane, ma anche la top model russa Irina Shayk. Lei come ha conosciuto questo luogo?
«Quando sono tornata in Brasile, dopo essere diventata una modella affermata, sono andata a visitare Alto Paraíso, una città di 8.000 abitanti che sorge proprio accanto a questo parco a tre ore da Brasilia. È famosa in tutto il mondo perché è ricca di sorgenti d’acqua pura: un centro olistico, frequentato da molte persone che si dedicano alla meditazione e studiano anche le culture indigene brasiliane, che sono un centinaio e soffrono di continue discriminazioni. Lì mi sono sentita a casa e ho cominciato a cambiare il mio stile di vita. Per due anni mi sono dedicata a me stessa, ad ascoltare quello che provavo, e ho passato diverse settimane anche con la tribù indigena dei Khrao: mi hanno insegnato i segreti della Terra, l’elemento che ci fa sopravvivere. Ho studiato i cicli delle stagioni, le tecniche per coltivare, la medicina naturale. Ho imparato a vivere in un modo più ecologico e a sentirmi ancora più parte del cosmo».
Perché questo parco è a rischio e lei vuole salvarlo?
«In questa savana ci sono sei mesi di pioggia e sei mesi di stagione secca. Il problema è che intorno a questa zona, dove vivono molti animali a rischio di estinzione, come l’armadillo gigante, viene coltivata con la monocultura la soia, una delle fonti di ricchezza principali del Brasile, che però rompe l’equilibrio di questa terra. Con la campagna che abbiamo lanciato vogliamo sensibilizzare di più la gente sulla salvaguardia di questo territorio, che ha una natura estrema, ma anche creare una struttura educativa per le nuove generazioni che dovranno occuparsi della savana in futuro. Abbiamo già ottenuto 70 mila euro con il crowdfunding, la raccolta spontanea di fondi tramite internet, ma abbiamo bisogno di tutti, anche di voi».
Il ristorante sta chiudendo e noi siamo ancora lì. È tempo di andare, anche se io rimarrei ad ascoltarla per ore e ore. Ma una cosa è certa: adesso voglio anch’io visitare Alto Paraiso.
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