Laura Adriani: «Fatemi vedere il vero amore»
Nel colore nascosto delle cose Laura Adriani è una ragazza che non si rassegna a una cecità improvvisa. Ma a Grazia l’attrice, protagonista anche di Squadra Mobile 2, confida la sua vera paura: non sapere riconoscere la persona a cui voler bene
Capita al Lido di Venezia di vivere un incontro fuori dagli standard con una giovane attrice che presenta un film alla Mostra internazionale del Cinema. E che, mentre tutt’intorno c’è il clamore dei flash, delle urla entusiaste dei fan e delle sfilate sul red carpet delle star, lei ti parli di psicologia e dell’importanza di capire fino in fondo se stessi. Per poi riflettere sull’amore, quello con la “A” maiuscola, e dirmi che che, comunque e sempre, esiste un piano B.
Laura Adriani è uno dei volti televisivi più amati grazie alla serie Squadra mobile, ha 23 anni e di persona ne dimostra meno, ma esprime la consapevolezza di una donna matura, quando vuole capire perché nella vita fai, pensi, dici, scegli certe cose e non altre.
Al Lido Laura è arrivata per Il colore nascosto delle cose, di Silvio Soldini, con Valeria Golino e Adriano Giannini, film presentato fuori concorso e nelle sale dall’8 settembre. «Io interpreto una ragazza di 18 anni, Nadia, che ha perso la vista da pochi mesi. Ha la memoria recente delle cose, dei colori, delle immagini. Non si rassegna a un’esistenza diversa, non vuole tornare a scuola, non accetta il dramma che le è capitato».
La aiuterà Valeria Golino, anche lei non vedente nel film.
«Sì, lei, la mia dirimpettaia, comincerà a darmi lezioni scolastiche che in realtà sono molto di più, sono lezioni di vita. A volte capita di non vedere cose che hai proprio davanti agli occhi, come se fossi cieco».
A lei è capitato spesso?
«Sì. Specialmente in amore non vedo cose palesi, ripongo enorme fiducia nell’altra persona, spero e cerco di immaginare di più di quanto l’altro in realtà voglia e possa dare. Ma da due anni sto lavorando su me stessa per avere i piedi per terra e idealizzare meno chi mi sta al fianco. Non è facile, i nostri bisogni e desideri tendono a veicolare la realtà».
Riesce a raccontare molto bene quello che è dentro di lei.
«Mi piace ascoltarmi e poi cercare le parole per dire quello che sento. Mi impegno molto per comunicare quello che provo e che penso. Posso anche sbagliare, ma con consapevolezza».
Questa sua inclinazione dipende anche dall’educazione che ha ricevuto o è un tratto assolutamente personale?
«Quello che respiri in famiglia ti influenza sempre. Mio padre, per esempio, è un vero personaggio: ha fatto per tutta la vita il vigile urbano, poi ha aperto un ristorante a Ostia e gli piace cantare. Pensi che a 16 anni ha recitato in Gian Burrasca con Rita Pavone. Poi c’è mia madre, insegnante: lei è la roccia. Che tiene a bada le nostre intemperanze, che ci ascolta e ci aiuta sempre, anche senza dire una parola. I miei genitori hanno aiutato me e mio fratello Daniele, che ha 29 anni e fa il tenore, a seguire le nostre passioni e i nostri talenti».
Quindi i suoi genitori non hanno mai messo in dubbio la sua scelta di fare l’attrice?
«Loro no. Ma lo faccio io ogni giorno. Mi chiedo: “Ma veramente vuoi recitare? Ma non è meglio provare con il ristorante di papà e diventare imprenditrice? Oppure sfruttare la laurea in psicologia, che sto per prendere?”. Alla fine, la risposta viene con i fatti, sono loro che decidono per me. Non so se sarà il lavoro per tutta la mia vita, ma sono in pace con me stessa perché mi ripeto: “Non dev’essere per forza questo, Laura, hai mille possibilità di fronte a te”. Adoro recitare, se non potessi più farlo, tornerei nel mio semplice e piccolo mondo. Felice lo stesso».
Studia Psicologia perché pensa che l’aiuti nella sua professione o per un interesse personale?
«A 18 anni soffrivo di attacchi di panico. Sono andata in terapia e la psicologa mi ha consigliato un libro sulla rabbia. È stata la prima lettura che mi ha aperto la mente su certi aspetti della vita, sul comportamento mio e degli altri. Ho capito che mi interessava moltissimo. Credo che andare dallo psicologo sia il regalo più grande che una persona possa ricevere. Un percorso personale imprescindibile per ognuno di noi. Anche se esiste ancora il preconcetto che, se vai in terapia, è perché sei malato o un nevrotico uscito da un film di Woody Allen. Io ho deciso di studiare psicologia e non me ne pento, è una materia che andrebbe inserita anche nel programma dei licei».
E come vive tutto questo: il festival, il red carpet, le conferenze stampa, le feste? Una ragazza come lei riesce a lasciarsi andare e vivere la favola?
«Assolutamente sì. L’anno scorso, per esempio, avevo un film in concorso Questi giorni, di Giuseppe Piccioni, e ho giocato a vestirmi da principessa romantica. Quest’anno mi sentivo diversa, tra il vintage e il rock e ho scelto un look di Moschino e Manila Grace. La moda, per sempio, fa parte del gioco ed è divertente».
E dopo Venezia che cosa l’aspetta?
«Una pistola. Nella serie Squadra mobile 2 finalmente mi hanno dato un’arma. È una sensazione strana».
Ci spieghi meglio.
«Sono sempre stata affascinata dalla divisa. Mio padre è stato vigile urbano, le dicevo. Il mio primo fidanzato era nell’aereonautica militare. È qualcosa che mi fa sentire protetta e che non ha nulla a che fare con l’arroganza e l’eccessivo potere della polizia americana. A Los Angeles, per un divieto di sosta mi hanno trattato come una criminale. Le forze dell’ordine in Italia ti rassicurano, in America fanno paura. E questo è profondamente sbagliato».
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