Lo conosciamo come scrittore di gialli e saggista. L’ultimo libro di GIANRICO CAROFIGLIO, invece, è il racconto della lunga notte di un padre e un figlio. In cui lui, racconta a Grazia, ha scoperto la vera natura dei sentimenti
Gianrico Carofiglio è lo stratega delle parole. Di lui, scrittore ed ex magistrato, si conosce il talento narrativo e la tendenza ad appuntire, parlando, le frasi fino a farne frecce: dritte al bersaglio. Inevitabili.
Oggi lo incontro per il lancio del suo ultimo romanzo: Le tre del mattino (Einaudi), un libro dove non c’è nemmeno uno dei punti di forza su cui Carofiglio, 56 anni, ha costruito i suoi bestseller: non è un giallo, non è un saggio. Non ci sono né l’avvocato Guerrieri, né il maresciallo Fenoglio, personaggi chiave di molti dei suoi successi editoriali. Ci sono invece un padre, un figlio, due notti senza sonno, Marsiglia, il jazz, la matematica. E una gran quantità di metafore, qualcuna forse involontaria.
Ora: le metafore possono essere rischiose. O peggio, noiose. Un modo per ridurre, in quattro parole, pensieri complessi. Oppure per trasformare banalità assolute in immagini. Non in questo libro, però. Qui la malattia di un ragazzo racconta la sua incapacità di reggere la vita. Qui la notte senza sonno rappresenta un attraversamento, una seconda nascita. Qui il passato è un equivoco. Il sesso è fragilità. Il jazz è verità. E la matematica è gioia. O almeno è così che l’ho letto io, questo strano romanzo.
Carofiglio, questo suo libro è imprevedibile, fuori da tutti i suoi schemi.
«Perfetto. È come volevo che fosse, dunque».
Le parole sono inequivocabili, eppure ognuno trova in un libro quel che gli pare. Secondo lei, che cosa c’è scritto nel suo ultimo romanzo?
«Per me è un libro sul passare del tempo, dell’amore e del talento».
Tutte cose destinate ad avere una fine?
«No, destinate a passare di mano. Da me a te, e da te a qualcun altro. Da un padre a un figlio».
E forse anche viceversa. Nel suo romanzo, è lo sguardo del ragazzo a restituire a suo padre un’idea di sé che lui aveva perduto.
«Un talento».
Che cos’è per lei?
«È una cosa che ti è stata data. E di cui hai completa responsabilità. Se la lasci lì, se non la riconosci, la coltivi, la fai crescere, diventa materiale inerte. È come l’amore: hai la possibilità di averne cura. Ma puoi decidere di lasciarlo come è, senza moltiplicarlo, scegliendo la strada che ti porta dove capita».
Finendo in una specie di non vita. Lei è stato molte cose: magistrato, politico, scrittore. Qual è il suo talento?
«Credo che sia una capacità legata alle parole. Le ho usate nella mia vita da pubblico ministero. E le uso oggi, ovviamente».
Sa come funzionano, indubbiamente.
«Ma il virtuosismo non basta. Le faccio un paragone calcistico: un giocatore può essere bravissimo a dominare il pallone. Ma se non passa, se non fa gioco di squadra, non ha nessun talento, perché, alla fine, non realizza niente. Non mette al mondo nulla. Lo stesso vale per la scrittura».
In questo caso si tratta di passare emozioni. Oppure informazioni, notizie, conoscenza.
«Quello che vuole. Purché ogni parola vada a segno».
Il suo ultimo libro è la storia di un padre e di un figlio costretti a trascorrere due notti insonni per testare una terapia per il ragazzo, a cui hanno diagnosticato una forma di epilessia. “Un romanzo di formazione”: c’è scritto nella quarta di copertina. E invece io l’ho letto, soprattutto, come il bilancio di una vita, quella del padre.
«È una storia tratta da una vicenda vera, che mi è stata raccontata molti anni fa. Naturalmente ho chiesto al protagonista il permesso di narrarla, pur stravolgendola del tutto e tenendo fede solo allo spunto dell’insonnia terapeutica. Nella prima stesura avevo raccontato soltanto un ragazzo che vagava solo, nella notte francese. Poi, di prepotenza, nelle pagine è entrato un altro personaggio: il padre. E ha preso forza e spazio. Ed è così che lui e suo figlio si ritrovano, si parlano per la prima volta, davvero. In uno spazio lungo due giorni e due notti: un attraversamento che li cambierà per sempre».
Il ragazzo scoprirà di avere un talento per la matematica. Lo ha ereditato dal padre, ma lo ha sotterrato quando lui ha lasciato la moglie e il figlio. E scoprirà anche che la loro separazione non è come se l’è raccontata. Una verità che si svela in una riga. È davvero così potente la forza delle parole?
«Quelle esatte, solo quelle. Come diceva la filosofa Rosa Luxemburg: dare il giusto nome alle cose è un atto rivoluzionario».
E dove andrebbe fatta questa rivoluzione?
«Nelle relazioni, soprattutto. Bisognerebbe sempre dirsi l’amore. Si dovrebbe continuamente riuscire a dire: “Grazie”. E anche chiedere».
Che cosa?
«Aiuto».
Lei ha detto che il talento è una cosa che “si ha”. Io penso che sia una cosa che “si è”. Saper scrivere è un’abilità che possiedi. È successo anche a lei, no?
«Che cosa?».
Lei era un magistrato che aveva pubblicato dei libri. Adesso è un romanziere.
«In realtà ho scelto di lasciare la magistratura per il grande rispetto che ho per quel lavoro. E per la stima che nutro per le persone con cui l’ho fatto. Ma a dir la verità ne ho molta nostalgia».
Quanta?
«Al punto che vorrei poter lavorare gratis su qualche caso. Sogno di poter avere per le mani dieci fascicoli e buttarmici a capofitto».
Che cosa le manca?
«L’adrenalina. La passione, insuperabile, della ricerca della verità».
Qual è la cosa più spaventosa del talento?
«Il doverne incontrare i limiti. Accorgerti che oltre a una certa soglia non puoi andare. Oppure che hai già superato il confine consentito e che avresti dovuto fermarti molto prima».
A lei è successo?
«Non lo so. Il talento è un materiale sfuggente. Meglio: elusivo. Ecco una parola che mi piace molto e che finalmente posso usare: elusivo. Suona benissimo».
La mia parola preferita è “indulgente”, ma non so mai dove scriverla.
«La scriva adesso. Indulgente è il ragazzo di questo libro. Indulgente è il suo sguardo sul padre, ingegnante da una vita, che finalmente suona il pianoforte, in un locale notturno, a Marsiglia. Mentre il ragazzo applaude, per dirgli che adesso sa. E finalmente ha capito: chi è, chi sono, che cosa li lega».
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