Francesco Vezzoli: La mia Italia remixata
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Ciao, sono Francesco, mi senti bene? Ho appena rifiutato una chiamata su Skype, non dovrebbero disturbarci per un po’». Inizia così l’intervista con Francesco Vezzoli, bresciano di casa a New York, 45 anni. Ha l’aria e la cortesia di un vicino di casa gentile, a cui potresti chiedere un po’ di zucchero in caso di necessità. Invece è uno degli artisti italiani più noti e considerati all’estero.
L’occasione di questa chiacchierata, come la chiama lui, è TV 70. Francesco Vezzoli guarda la Rai, la mostra che inaugura alla Fondazione Prada di Milano il 9 maggio e che durerà fino al 24 settembre. È un progetto ideato da Vezzoli, realizzato con la collaborazione della Rai, che mescola opere di artisti come Alighiero Boetti, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, a spezzoni di telegiornali e di show televisivi dell’epoca.
La televisione è presente nelle sue opere da sempre.
«È vero. La televisione è un filo conduttore della mia infanzia. Ero un bambino strano: le mie nonne amavano i film del regista Raffaello Matarazzo, popolarissimo negli Anni 50, e le pettinature di Grace Kelly, i miei genitori mi spiegavano la differenza tra Pci e il Pdup.
A 5 anni mi trovavo a Rimini, in spiaggia, tra La Repubblica e Novella 2000. In quel periodo la televisione era un perfetto Giano bifronte: ti dava le informazioni, che allora erano molto dure, erano gli anni del terrorismo, che io continuo a chiamare guerra civile, ma contemporaneamente la Rai ti intratteneva e teneva su il morale della nazione. All’interno della mostra abbiamo cercato di restituire questi aspetti. In quegli anni la Rai ci ha dato molto, anche quando la sua offerta era frivola. È stata quasi come una Marilyn Monroe che intratteneva le truppe al fronte».
Ed erano spettacoli di altissimo livello.
«Abbiamo dedicato una sala a Milleluci, perché l’idea di due donne conduttrici, Mina e Raffaella Carrà, senza un uomo, era un po’ lo specchio pop delle legittime rivendicazioni delle identità femminile. Il prodotto era di qualità da un punto di vista dello spettacolo, ma secondo me era anche di profonda avanguardia: l’equivalente di uno show francese o statunitense non era assolutamente all’altezza né da un punto di vista dell’eleganza visiva né da quello del coraggio ideologico.
Nell’unica intervista che David Letterman ha dato dopo aver lasciato il suo talk show di attualità, il conduttore americano ha detto di essere stupito che ancora nessuno abbia dato la conduzione a una donna. Noi in Italia nel 1978 avevamo Adriana Asti che conduceva Sotto il divano, quindi chi vince? Ho dedicato due sale a due fotografe italiane, Lisetta Carmi e Elisabetta Catalano. La prima è nota per un bellissimo lavoro sui travestiti dell’epoca, la seconda era la ritrattista delle dive e fotografava sui set di Federico Fellini. La sala dedicata a Lisetta la chiamo della femminilità ambita, mentre quella di Catalano è della femminilità esibita. Il lavoro di Carmi sui travestiti è unico e lo considero quasi una metafora di quello che voglio raccontare in questa mostra, e cioè che la Rai in quel periodo produce programmi radicali, audaci, fa sperimentazione molto più che in altri Paesi. Lisetta è stata la prima fotografa del Dopoguerra che si è concentrata sulle questioni del transgender, con un occhio sensibile e rispettoso. La sua è un’idea di accesso gentile, amichevole. Un fatto che può sorprendere e che invece dimostra come l’Italia fosse più avanti di altri Paesi».
Forse noi italiani non siamo consci del nostro valore?
«Spero che la mostra contribuisca a far capire la grandezza di ciò che è stato fatto in quel periodo e di questo patrimonio storico. È un discorso che vale per i depositi dei nostri musei: abbiamo un surplus di opere. La mostra è stata per me un’occasione unica per contestualizzare tutto questo materiale in un luogo, la Fondazione Prada, in cui si presentano eccellenze. Sono molto felice dell’opportunità che ho avuto».
Che senso può avere secondo lei questa mostra per un ventenne?
«C’è una parte sui diritti civili, soprattutto sulle battaglie femministe, che penso sia “leggibile” anche da un millennial, che capisce che qualcuno ha combattuto, prima di lui, per ottenere il diritto alla sessualità, alla libertà. Le sfumature ideologiche forse saranno più difficili da cogliere, ma l’arte non deve darti delle risposte, deve porre delle domande».
Vezzoli, lei in questa mostra sembra ricoprire il ruolo del curatore, più che dell’artista.
«No, non scherziamo. Non sono un curatore, è una professione che non è la mia. Diciamo che ho fatto il pasticciere. La mostra è una gigantesca torta nuziale, il matrimonio è tra la Fondazione Prada e la Rai, la torta ha tantissimi piani e tantissimi gusti. Ci può essere il rischio di un’indigestione, ma anche di un grande divertimento. Non lo dico per fare il finto modesto: semplicemente non posso paragonarmi a chi cura biennali. Mi piace essere un connettore di situazioni. L’idea di mettere insieme la Fondazione Prada e la Rai è la sola cosa di cui mi possa senta davvero orgoglioso. Sarebbe dovuta venire in mente a qualcuno della Tate e della BBC in Gran Bretagna, ma non è successo».
E ancora una volta gli italiani sono più bravi.
«Non solo: la BBC era noiossissima»
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