Chris Evans: «Per amare non servono muscoli»
Per tutti Chris Evans è l’attore che interpreta Capitan America. Ma a Grazia ha voluto parlare di un altro tipo di eroismo: quello che ha conosciuto interpretando un uomo che cresce una figlia non sua.
Per tutto il mondo Chris Evans è Capitan America, il muscoloso eroe della serie degli Avengers. Ma bisognava togliergli la tuta blu e calarlo su un altro set per scoprire che l’attore americano, 36 anni, ha un altro superpotere: quello di saper toccare le corde dell’anima. Lo fa nel film drammatico Gifted - Il dono del talento (nelle sale), in cui interpreta un uomo che alleva sua nipote, una bambina rimasta orfana e intellettualmente molto dotata, cercando di lasciarle l’innocenza dell’infanzia.
Evans è sempre stato un ragazzone buono e solare, perfetto per il ruolo di superuomo invincibile, mentre in questo film dimostra di saper commuovere gli spettatori facendo praticamente il padre adottivo. Non male per uno dei single più ambiti del cinema, gli dico (anche se negli ultimi giorni lui si è fatto rivedere con la ex Jenny Slate, coprotagonista di Gifted): «Già, niente male, considerando che sono un uomo senza moglie e senza figli, almeno che io sappia», mi risponde ridendo. Poi torna serio: «No, dimentichi quest’ultima battuta: perché noi uomini dobbiamo uscircene sempre con queste frasi grossolane?».
A Hollywood, dopo lo scandalo delle molestie sessuali che ha coinvolto il produttore Harvey Weinstein, c’è ancora più attenzione e le battute sessiste non sono più ammesse. Non che Evans sia tacciabile di alcunché: viene ricordato sempre come un ragazzo d’oro dalle sue ex (una è l’attrice Jessica Biel) ed è uno dei più ferventi militanti per i diritti degli omosessuali da quando suo fratello Scott, anche lui attore e gay dichiarato, lo ha coinvolto nelle sue battaglie. «Non è un mistero che se fai l’attore, essere troppo militante, soprattutto su certe tematiche, può alienarti le simpatie di una parte del pubblico e, magari, renderti meno popolare», dice oggi.
«Ho molti amici che non se la sentono di rischiare la carriera per esprimere le loro opinioni, ma quando succede qualcosa che ti fa accapponare la pelle, perché tacere?». Insomma, Chris appare subito schietto, diplomatico e con la testa sulle spalle. Un po’ come l’uomo che vediamo sul grande schermo.
Dopo questo film le è venuta voglia di avere una famiglia tutta sua, magari di diventare padre?
«Ho sempre voluto entrambe le cose, ma per come sta andando la mia vita in questo momento, credo che non succederà tanto presto. È un peccato perché i miei amici hanno già dei bambini e adoro fare lo zio ai figli di mia sorella».
Che cosa le piace?
«Adoro i momenti in cui i bambini ti chiedono il perché delle cose. O quando stai per rispondere loro, e invece capiscono tutto da soli. Ricordo ancora con tenerezza i momenti in cui io, quando ero piccolo, arrivavo a scoprire quelli che mi sembravano i grandi segreti del mondo. Ho l’impressione che avere figli possa aiutarti a ritrovare il bambino che eri e darti la possibilità, crescendoli, di non commettere i vecchi errori».
Lei ha 36 anni, si sente pronto per fare il genitore?
«Non so, credo che ogni padre si trovi di fronte alla sfida quotidiana di provare a capire quale sia la cosa giusta da fare volta per volta. Il problema è che esistono tante situazioni limite, e c’è bisogno di una sensibilità particolare per essere sempre capaci di prendere una direzione: tutti abbiamo un’opinione su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma non c’è mai qualcuno che possa dirtelo prima».
Il film si chiama Gifted -Il dono del talento. Quale è il suo talento?
«Sono bravo nelle interviste. No, scherzi a parte, non saprei: mi sento sempre a mio agio in tutto ciò che riguarda una qualche forma d’arte. Cantare e ballare sono le mie due grandi passioni, ma mi piace anche far riflettere chi mi guarda».
Il film pone un’altra questione: che cosa significhi davvero vivere. Bisogna seguire il proprio talento o restare il più possibile normali? Lei avrà trovato la risposta.
«Vivere è come stare per sempre in classe: è un processo di apprendimento continuo. Nel mio caso, sto imparando ad ascoltare sempre meno quel grande egoista del mio cervello».
Ha commesso altri sbagli?
«Come tutti ho pensato a lungo che nella vita conti soprattutto fare quello che si deve, dimenticando che è molto più bello inseguire ciò che ci piace».
Lei ha una lista di desideri da realizzare?
«Ho così tante cose in testa che mi spaventa solo l’idea di compilare una lista».
Una delle cose più apprezzate di Gifted è l’interpretazione dell’11enne Mckenna Grace. Anche da lei ha imparato qualcosa?
«Sì, a essere sempre pronto a sorridere. Amo il mio lavoro, ma spesso lo affronto con troppa serietà. Mckenna sembra nata per spiegarti che per fare bene le cose non è indispensabile tenere il muso: è una lezione che molti dimenticano da grandi».
Lei è molto credibile nei panni di genitore responsabile. Si è ispirato alla sua famiglia?
«I miei hanno sempre sostenuto le mie inclinazioni, anche quando avevo deciso di fare l’attore e tutte le parti che riuscivo a ottenere erano nei teatri per bambini. Io sapevo di essere portato per questo lavoro e, anche se loro non ne erano convinti, e più volte hanno cercato di dissuadermi, hanno comunque lasciato che seguissi la mia passione. Insomma, tra tante contraddizioni, sono sempre stati comunque dalla mia parte».
In Gifted il suo personaggio finisce in una battaglia legale contro la sua stessa madre per decidere l’affido della nipotina geniale. Il sistema degli affidi è davvero così complicato?
«È un campo in cui ogni decisione presa da un giudice è delicatissima e può cambiare il corso di tante vite. Io avevo solo un’esperienza diretta e molto positiva: quella di mia sorella, che è stata adottata. Mio padre e mia madre l’avevano avuta in affido appena nata e hanno potuto avviare le procedure per l’adozione con relativa tranquillità. Ma non succede sempre così: a volte ci sono in ballo legami affettivi che finiscono per scontrarsi con quello che la legge ritiene più giusto».
Oggi ci sono molte possibilità per diventare padri o madri: dall’adozione alla fecondazione grazie al contributo di uno o più donatori. Secondo lei quanto conta il legame genetico in un rapporto tra genitore e figlio?
«Per secoli abbiamo pensato alla genitorialità solo in termini di genetica, ma non è così. Un legame affettivo non deriva dai rapporti di sangue, ma dall’amore e dalla fiducia reciproca. Io l’ho capito in ospedale, guardando un bambino in braccio all’infermiera che si prendeva cura di lui, ma lo stesso si può dire per il rapporto che si crea tra uno studente e la sua insegnante. Quando diciamo che l’amore è universale, intendiamo proprio questo. Risolvere tutto a un esame del dna mi sembra un approccio arcaico».
Lei che ha vissuto entrambe queste esperienze, pensa che sia più difficile interpretare un padre o un supereroe?
«Con Capitan America è tutto più chiaro, perché si tratta di un personaggio che ha già una sua storia: fumetti, cartoni animati, libri. Invece, fare da padre a una bambina con un quoziente intellettivo superiore è un’esperienza rara e devi trovare il tuo modo di raccontarla: sarebbe una sfida interessante da vivere».
Che cos’altro le piacerebbe fare?
«Adesso penso solo a tornare in Massachusetts, dalla mia famiglia. Questo è il momento più bello da quelle parti: non fa ancora freddissimo, nell’aria senti il profumo delle foglie degli alberi e puoi andare a raccogliere le mele MacIntosh. Per me questa è una giornata perfetta».
Da qualche tempo lei va in giro con la barba. È perché così pensa di piacere di più alle ragazze?
«In realtà è comoda, mi garantisce un minimo di privacy, perché Capitan America è il mio personaggio più celebre ed è sempre sbarbato».
Non mi ha detto che cosa ne pensano le donne, però.
«Credo che la risposta stia nella lunghezza. All’inizio, quando è dura, la barba pizzica e non piace mai un granché. Col passare delle settimane, diciamo che divento più socialmente accettabile e ricevo qualche bacio sulla guancia».
Qual è la cosa più strana che una fan ha fatto per lei?
«Non pensi che io abbia solo fan di sesso femminile, perché probabilmente è il contrario. Capitan America piace a un sacco di nerd. Quello che capita più spesso è che arrivino già con in mente qualcosa da dire e poi, all’improvviso, crollino: c’è chi inizia a balbettare, chi si mette a piangere».
E lei?
«Io faccio lo stesso».
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