Da qualche giorno, quando esco di casa per venire in redazione, la mia bambina piange. Non lo aveva mai fatto prima, mi dicono che sia il momento, ora ha quasi otto mesi e comincia a capire chi è la mamma. Naturalmente mi si stringe il cuore. Iryna, la signora ucraina che vive con noi, mi esorta: «Vada, signora, vada». Io esco col magone eppure so che Annina si riprenderà, ha troppo mondo da scoprire intorno a lei, è troppo curiosa e felice della vita per abbattersi per così poco come la momentanea sparizione della sua mamma.
Così la mia preoccupazione si stempera velocemente mentre mi dirigo piena d’eccitazione verso Grazia, il glorioso settimanale che quest’editore mi ha chiamato a dirigere, incurante dei luoghi comuni che vogliono una neomamma che per di più allatta una donna con la carriera chiusa, stracolma di entusiasmo per questo giornale che ho sempre amato, mentre la mia di mamma, anche lei primipara attempata che ha tirato su tre figli lavorando, mi dà consigli pratici. E io adesso, assieme a questa squadra meravigliosa di giornalisti appassionati spero di entrare in sintonia con voi, con i vostri cuori, il vostro cervello, il vostro passo, la vostra moda.
Quando si è insediato, un mese fa, Barack Obama ha fatto un discorso che mi ha fatto venire i brividi: «Non importa che tu sia bianco o nero, ispanico, asiatico o indiano d’America, giovane o vecchio, ricco o povero, abile o disabile, gay o etero, puoi farcela qui in America, se hai davvero intenzione di provarci». Ecco, io vorrei provarci insieme con voi. Questa è la nostra America. A dopo.
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