È quello su cui cammina a 400 metri di altezza senza protezioni nel nuovo film The Walk. Ma l’attore Joseph Gordon-Levitt conosce da sempre le emozioni forti. Perché, racconta a Grazia, è stato un ragazzo ribelle e ha sbattuto molte porte. Adesso, finalmente, può godersi le gioie della paternità. Da bravo marito femminista
Quando raggiungo Joseph Gordon-Levitt l’attore ha appena ricevuto dieci minuti di applausi al New York Film Festival per la sua prova in The Walk, del regista Robert Zemeckis. Immagino che sia al settimo cielo, anche perché da poco è diventato papà. Ma, come sempre, cercherà di proteggere gelosamente la sua vita privata. Va messo in conto nelle interviste: questo giovane interprete, considerato uno dei più bravi della sua generazione, ha un rapporto burrascoso con la celebrità. Joseph, 34 anni, figlio di una famiglia agiata, è un ex bambino prodigio salito per la prima volta su un palcoscenico a 4 anni. Eppure detesta essere considerato una star. Penso che sia stata questa avversione a salvarlo dal destino di tante altre piccole stelle bruciate dalla notorietà. Lui, nonostante le difficoltà, oggi sembra una persona molto equilibrata. Ha superato il dolore per la morte di suo fratello, ha colto successi al cinema con Inception, Il cavaliere oscuro – Il ritorno e Lincoln, e a dicembre si è sposato con la sua compagna, Tasha McCauley, 34 anni, imprenditrice e genio dei computer. E ci sono altri aspetti da esplorare con questo attore che da sempre si definisce femminista, che ha avuto una madre attiva nel movimento per i diritti delle donne e che è stato protagonista questa estate di un video, diventato virale su internet, in cui spiega che le mamme di mezza età sono più sexy delle sgallettate di 20 anni. Quando lo incontro, Joseph emana felicità, proprio come pensavo. È contento anche per la sfida vinta sul set di The Walk con Zemeckis, il regista di tanti successi, da Forrest Gump a Cast Away, in cui recitano anche Ben Kingsley e Charlotte Le Bon. Il film racconta la storia vera dell’acrobata francese Philippe Petit, che il 7 agosto 1974 ha camminato su un cavo di acciaio teso tra le due Torri Gemelle di New York, a 417 metri di altezza, senza alcuna forma di protezione. Un’incredibile prova di coraggio che in sala tiene incollati alla poltrona con spettacolari immagini 3D. Non è stata una bravata ma una performance che ha segnato un’epoca.
Non la spaventava l’idea di camminare su un filo sospeso nel vuoto?
«Avevo molta paura. Il cavo che abbiamo preparato sul set si trovava a tre metri e mezzo da terra. Non erano i 417 metri di altezza del filo di acciaio su cui ha camminato Philippe Petit, ma io ero terrorizzato. Nelle scene più difficili sono stato sostituito da una controfigura, in molte altre però sono proprio io quello che vedete. Se avessi perso l’equilibrio avrei fatto un bel capitombolo».
Come ha imparato a fare l’acrobata?
«Mi sono allenato per una settimana con il protagonista di quella impresa. Philippe, che nel 1974 aveva 24 anni, è un maestro fantastico, capace di infondere fiducia. Proprio perché è una persona ottimista, sono riuscito a trovare il coraggio necessario. Ma non diventerò mai un equilibrista».
Qual è stato il momento più eccitante?
«È quando faccio il primo passo sul cavo. Guardi giù e senti un brivido. Lo stesso provato da Philippe nel 1974. E che gli spettatori rivivono al cinema grazie alle vertiginose immagini 3D di New York».
Molti si chiederanno se sia stata l’impresa di un folle.
«Camminare su un filo è molto più di una prova da incoscienti: è una sfida mentale. Devi essere completamente concentrato sul compito e non ti puoi permettere distrazioni. Fermarsi a pensare che potresti cadere è un lusso inaccettabile. Una esperienza che, con le dovute differenze, tutti fanno nella vita, senza però rischiare la pelle. A me, per esempio, capita di recitare una parte impegnativa davanti a 30 persone che mi guardano: devo superare imbarazzo e distrazioni».
Ha chiesto a Philippe perché lo ha fatto?
«Sì, ho sfidato al sua riservatezza. Mi aspettavo che parlasse della voglia di libertà. La passeggiata è avvenuta nel 1974, un anno turbolento per gli Stati Uniti: due giorni dopo, il 9 agosto, il presidente Richard Nixon avrebbe dato le dimissioni per lo scandalo Watergate. Intanto la guerra in Vietnam si stava avviando a una conclusione ingloriosa e il movimento femminista era in prima pagina. Ma Philippe mi ha detto che non aveva messaggi politici da lanciare. Voleva solo fare una cosa bella e grandiosa, che aveva in mente da tempo. Come tutti gli artisti di questo mondo. Perché lui, più che un acrobata, è un virtuoso della danza».
Il funambolo francese vive ancora in America?
«Philippe, che oggi ha 66 anni, ha una casa in campagna, a 80 chilometri da New York. Il cavo su cui ha fatto la celebre camminata è nel giardino, teso tra due sostegni. E lui si esercita ogni giorno».
La performance è avvenuta sulle Torri Gemelle, distrutte nell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Ci ha pensato durante le riprese?
«Era inevitabile. Ma, oltre a quel che si perde, bisogna ricordare le cose belle. Io ho vissuto la scomparsa prematura di mio fratello Daniel, morto a 36 anni per una overdose. Voglio conservare non solo il dolore ma anche i bei momenti vissuti insieme con lui. Lo stesso vale per le Torri Gemelle: non c’è stato solo l’attacco di al Qaeda ma pure la fantastica passeggiata di Petit tra i due grattacieli. Che è giusto celebrare».
Camminare sulle Torri Gemelle è stata una impresa trasgressiva. Non a caso il funambolo è stato arrestato. Lei non infrange mai le regole?
«Sono estremamente rispettoso delle regole, ma solo se le trovo giuste. Se non le considerto tali, allora non sono un tipo molto obbediente. So che fa ridere, ma penso che un artista debba sempre trovare la giusta misura tra rispetto della tradizione e cambiamento».
Da ragazzo era un ribelle?
«A mio modo. A scuola andavo bene perché volevo ottenere buoni voti per essere ammesso a un college di alto livello. E sul lavoro penso di essere molto professionale. Ma ho avuto anche un lato ribelle, perché rifiutavo quella che consideravo la cultura superficiale di tanti giovani americani. A dieci anni non sopportavo di leggere gossip sul mio conto nelle riviste per teenager. E mi dava fastidio essere riconosciuto per strada».
Lei è stato un bambino prodigio e a 6 anni ha fatto la prima comparsa in tv.
«Recitare è la mia vocazione. Già a 4 anni facevo parte di un gruppo teatrale e ho interpretato lo Spaventapasseri di Il Mago di Oz. Poi a 6 ho avuto le prime parti nei film per la tv».
Diventare famoso così presto non rischia di bruciare un talento? Gli esempi nello star system non mancano.
«Sono stato fortunato, ho avuto genitori che hanno sempre messo al primo posto le mie scelte. Sono persone di larghe vedute: mio padre è un giornalista impegnato, mia madre negli Anni 70 militava nel partito della Pace e della Libertà. Per loro potevo fare quello che mi piaceva, a patto che fosse qualcosa di creativo. Se da bambino non mi andava di andare a un provino, mia madre, che mi accompagnava, era la prima a dire: “Non c’è problema. Se non vuoi più fare l’attore, per noi va bene così».
So che è fuggito dal set della sit-com che le ha dato la notorietà, Una famiglia di terzo tipo.
«Eravamo all’ultima stagione della serie sulla famiglia di extraterrestri che arriva sulla Terra e io avevo capito che stavo sacrificando gli studi per una carriera precoce. Volevo costruirmi una cultura e confrontarmi con i miei coetanei. Così ho salutato regista e colleghi e mi sono iscritto alla Columbia University di New York. È stata un’esperienza che mi ha insegnato a dire dei no».
Parliamo di marijuana e del regista Oliver Stone: da quel che ho letto, lei non sembra contrario alla legalizzazione della cannabis.
«Lei allude alla mia esperienza sul set di Snowden, il film che Oliver Stone ha da poco girato sull’ex dipendente della Cia che ha rivelato lo spionaggio di massa fatto dai servizi di sicurezza americani e britannici. Io e Oliver ci siamo fatti delle fantastiche fumate che hanno migliorato e ispirato la nostra creatività durante le riprese. In generale, non credo che la gente sia bene informata sugli effetti dannosi o benefici della cannabis. La nostra cultura demonizza gli spinelli. La marijuana provoca una forma di dipendenza soprattutto psicologia e non fisica, come invece avviene con le sigarette e l’alcol, che sono perfettamente legali e accettati».
Nello stesso periodo, ad agosto, lei è diventato papà: la nascita di un figlio ha cambiato la sua vita?
«Con mia moglie Tasha siamo molto felici di avere messo al mondo un maschietto. Però preferisco non parlare della mia famiglia. Io sono un attore, ho deciso di comparire in pubblico e sono tenuto a parlare del mio lavoro sul set. Ma mia moglie, che è un‘imprenditrice nel campo dei computer e dei robot, non ha fatto questa scelta e mio figlio è troppo piccolo per dire a che cosa aspira. Dunque preferisco tenerli lontano dai riflettori».
Ha altri sogni nel cassetto?
«Tanti. Ma cercherò di realizzarli senza fretta. Un passo alla volta, come quando cammini su un cavo sospeso nel cielo».
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