La deputata britannica credeva nell’Europa e per questo è stata brutalmente assassinata da un fanatico che voleva abbattere le sue idee. Questa morte, che ha spostato voti a favore del rimanere nell’Unione della Gran Bretagna, insegna che dobbiamo fermare la catena dell’odio nella vita reale e sui social
Nessuno vorrebbe mai diventare un martire. Neanche Jo Cox lo voleva. Aveva poco più di quarant’anni e due figli piccoli, Cuillin e Lejla. Vivevano tutti insieme a Londra in una “houseboat”, le chiatte trasformate in abitazioni che popolano alcuni tratti del Tamigi. Jo non avrebbe voluto diventare né martire né simbolo di niente, perché amava la vita e credeva che il cambiamento reale potesse venire intervenendo sulle cose concrete. D’altra parte era questo il metodo che aveva sempre seguito. Dapprima riuscendo a entrare all’università di Cambridge pur provenendo da una modesta famiglia di provincia, passando le estati facendo sostituzioni nella fabbrica di dentifrici dove aveva lavorato suo padre, vivendo sulla propria pelle il classismo che ancora pervade le università britanniche d’élite. Poi scegliendo la strada della cooperazione internazionale, che aveva percorso passo dopo passo: per un decennio in giro per il mondo con Oxfam, la grande organizzazione umanitaria, poi nell’associazione Freedom Fund, che si batte contro le forme contemporanee di schiavitù, poi collaborando con la politica in campagne sulle morti per parto nei paesi in via di sviluppo. E infine come parlamentare laburista, eletta poco più di un anno fa a Westminster dove aveva portato sia l’attenzione professionale ai migranti sia lo spirito di mescolanza etnica e culturale della provincia dov’era cresciuta. Nel suo “maiden speech” (il primo discorso in aula di un deputato esordiente, tradizione del parlamentarismo britannico) lo aveva raccontato così: «Le nostre comunità sono state plasmate dall’immigrazione nel corso dei decenni, sia quella dei cattolici irlandesi che quella dei musulmani del Kashmir pakistano o del Gujarat indiano. E mentre noi celebriamo la nostra diversità, quello che non smette di sorprendermi ogni volta che visito il mio collegio elettorale è che ciò che ci unisce e che abbiamo in comune è molto di più di ciò che ci divide».
Questo avveniva pochi mesi prima di essere accoltellata, colpita con tre pallottole e presa a calci ormai agonizzante da un tizio che credeva di abbattere l’Unione europea mentre stava solo uccidendo una giovane donna che aveva ancora moltissimo da dare a sé stessa, ai propri figli e alla propria comunità. E anche se non avrebbe mai voluto diventarlo, oggi Jo Cox è un simbolo destinato a pesare ben oltre i confini britannici. Perché la sua morte è avvenuta nel pieno di un dibattito referendario che coinvolge direttamente la Gran Bretagna e che si conclude il 23 giugno con il voto sulla “Brexit”, ma il linguaggio e gli argomenti che hanno armato l’assassino sono gli stessi nei quali tutti noi siamo immersi quotidianamente.
Ogni volta che assistiamo allo spettacolo dell’odio che contamina i social, ogni volta che seguiamo un “troll” che infanga un personaggio pubblico con argomenti che niente hanno a che fare con le sue idee o con le sue azioni: quell’odio e quella violenza ci sembrano virtuali e dunque inoffensivi, non ci inquietano come avverrebbe se il pestaggio si svolgesse di fronte ai nostri occhi. Eppure quell’odio e quella violenza sono reali quanto una predicazione. E come in ogni predicazione, prima o poi il messaggio viene preso sul serio da un troll in carne e ossa che si incarica di trasformare il virtuale in reale grazie ad una bomba o una pistola. Troppo facile prendersela con i disturbi mentali di Tommy Mair, l’assassino di Jo Cox, così com’è troppo facile prendersela con la follia dei kamikaze. Per quei disturbi e quella follia c’è sempre un interruttore che può essere acceso: per i kamikaze del Jihad è la propaganda fondamentalista (che stiamo finalmente imparando a reprimere, con nuove leggi e nuovi strumenti di polizia), per l’assassinio di Jo Cox è stato il linguaggio dell’odio virtuale che si è fatto violenza concreta.
Prima o poi troveremo gli strumenti per individuare e bloccare i profeti dell’odio che intossicano la nostra vita digitale, ma nel frattempo possiamo cominciare a essere meno indulgenti ogni volta che ne incrociamo uno nelle nostre peregrinazioni sui social. Non si tratta di qualche “strambo intollerante”, ma di stregoni che giocano con i nostri peggiori istinti. E che minacciano gli stessi diritti di parola e di associazione su cui si sono costruite le nostre civiltà liberali. Perché i profeti dell’odio colpiscono anche gli argomenti per i quali si schierano, com’è accaduto in Gran Bretagna per la campagna a favore dell’uscita dall’Unione Europea. Una campagna, quella per la Brexit, che era partita con il piede giusto e con argomenti concreti, salvo poi trasformarsi in una mobilitazione sempre più virulenta e rumorosa contro l’Europa e i suoi cosiddetti “servi”. Oggi, i britannici che andranno a votare giovedì 23 giugno lo faranno anche ricordando la passione europeista di Jo Cox. Sembra che la sua morte, ingiusta e brutale, abbia avuto l’effetto di spostare voti verso le ragioni dell’Unione europea. E sappiamo che il suo sacrificio ci ha già insegnato a guardare in un altro modo al linguaggio dell’odio.
© Riproduzione riservata