Di sicuro non lo è Freida Pinto che vuole cambiare le regole e gli stipendi di Hollywood e guida un nuovo progetto contro la disparità di genere. «Anche se», spiega l’attrice indiana a Grazia, «il vero nemico da combattere non sono gli uomini maschilisti, ma è dentro di noi»
«Nessuno della mia famiglia mi ha mai detto: “Frena”. E, se l’avesse fatto, non l’avrei ascoltato». Freida Pinto, la star venuta da Mumbai e diventata famosa con The Millionaire, il film di Danny Boyle premiato nel 2009 con otto Oscar, ha il tono deciso. Sorride, ma non scherza: è scesa in campo per una nuova battaglia. Si chiama We do it together (“Facciamolo insieme”) ed è la prima casa di produzione no profit per contrastare la disparità di genere. È nata a Hollywood, l’ha fondata la produttrice italiana Chiara Tilesi (la stessa di All The Invisible Children, il film corale firmato da alcuni dei più grandi registi del mondo) e ne fanno parte stelle del cinema internazionale, da Jessica Chastain a Juliette Binoche e Valeria Golino.
Freida Pinto ha scelto Grazia per parlare di questa iniziativa, che ha l’obiettivo di cambiare le regole del cinema e non solo. «Sono ambiziosa e competitiva», mi spiega lei. «Sono una donna e sono indiana: e questo non deve essere un problema, in nessuna parte del mondo» Eccezione a tutte le regole delle interviste di cinema, non fa neanche un accenno al suo film in lavorazione, Il libro della giungla: le origini. Sorvola anche sulla sua relazione con il giocatore di polo Ronnie Bacardi, l’unico uomo al suo fianco dopo sette anni trascorsi con l’attore Dev Patel, che aveva conosciuto proprio sul set di The Millionaire.
Com’è nata l’idea di We do it together?
«La maggior parte dei film, diciamo quasi tutti, racconta le donne nel ruolo di mogli, madri, fidanzate, figlie. Ruoli che sono sempre di supporto a quelli maschili. Le sceneggiature di oggi non è che si discostino molto da quelle di classici come Cenerentola».
Perché, secondo lei?
«Il motivo è semplice: tutti i produttori esecutivi, quelli che decidono quali film girare, sono uomini. Così come il 97 per cento dei registi. Quando abbiamo presentato il nostro progetto, eravamo solo io, Chiara Tilesi e Kátia Lund (regista di City of God, ndr). Ora siamo in 45: attrice, registe, produttrici, sceneggiattrici, agenti. Durante la giornata possiamo essere rivali, ma la sera, quando ci riuniamo attorno a un tavolo e condividiamo lo stesso meraviglioso progetto, siamo una famiglia. Vogliamo portare sullo schermo storie di donne fatte da donne, ma che piacciano e siano utili a tutti».
Crede che il cinema, nonostante l’influenza della tv e di internet, possa ancora cambiare o comunque influenzare la mentalità delle persone?
«Non c’è dubbio. Il grande schermo ha un forte potere sull’immaginario collettivo e sull’opinione pubblica. Attraverso i film e le emozioni che trasmettono molte storie, le persone possono capire realtà molto distanti. Pensiamo solo a quanto è stato importante il cinema nella battaglia per far accettare l’omosessualità o i transgender. Proveremo a fare altrettanto con We do it together e il primo titolo lo annunceremo al Festival di Cannes che inizia l’11 maggio».
C’è una donna nella sua famiglia che è un modello per lei?
«Di certo mia nonna. È cresciuta in una famiglia molto conservatrice, ma era una battagliera. È riuscita a crescere tre figlie emancipate, ognuna creativa a suo modo. Ma mia nonna non è l’unico modello per me. Ci sono anche mia madre Sylvia e mia sorella Sharon. Tutte donne forti».
Come vivono oggi le indiane? Negli ultimi mesi, nel suo Paese, si sono verificati numerosi casi di stupro.
«L’India è un luogo complicato e carico di contrasti. Abbiamo attraversato un momento in cui gli episodi di violenza sessuale erano all’ordine del giorno. Le donne sono scese in piazza e hanno fatto sentire la loro voce, ma il furore ha prevalso sulle loro ragioni. Per fortuna oggi gli uomini cominciano ad accettare l’idea che le donne possano avere un ruolo di primo piano nella società e occupare posizione di potere. Ma ci sono ancora tante, troppe di noi che stanno lottando perché vengano rispettati i loro diritti più elementari. E sa qual è la novità? Che si stanno ribellando apertamente, cosa che fino a qualche tempo fa era impensabile: sarebbero rimaste in silenzio».
Lei si è mai sentita debole perché femmina?
«Non sono quel tipo di donna. Anche nei momenti di debolezza so come gestire la mia fragilità. Non mi sono mai sentita inerme perché sono consapevole della mia forza. Le diseguaglianze esistono, in molte parti del mondo i nostri diritti non vengono riconosciuti, ma “debole” è una parola che non mi appartiene e non deve appartenere a nessuna donna».
Qualche volta, però, la vita è più difficile per noi.
«Non difficile: diversa. Tutto questo parlare di fragilità è solo un modo in cui alcuni hanno interpretato questa diversità. Una donna che chiede il permesso per stare a casa dal lavoro, a curare i suoi bambini, non è debole, asseconda solo il suo modo di essere».
Non pensa che, a volte, più che la mentalità maschilista il vero nemico delle donne siano le altre donne?
«A dire la verità, non so quale sia il male peggiore. Sono due nemici, con lo stesso peccato e le stesse responsabilità, perché bloccano il progresso. La mentalità maschile esercita ancora un ruolo importante: porta avanti certi stereotipi e l’idea di una società patriarcale. Però anche le donne che non sostengono le loro simili rappresentano un enorme problema. Io, però, credo che ogni donna sia in un certo senso il nemico di se stessa».
Perché?
«Molte di noi hanno la tendenza a considerarsi non abbastanza brave. Rinunciano a perseguire i loro obiettivi, a rivendicare aumenti, avanzamenti di carriera e altri vantaggi meritati. La mancanza di autostima rappresenta sempre il nemico più pericoloso».
Molte attrici di Hollywood, come Patricia Arquette e Jennifer Lawrence, hanno denunciato la discriminazione di genere, dicendo di aver ricevuto compensi inferiori a quelli dei colleghi maschi. A lei è capitato?
«No. Quando sono stata pagata meno degli uomini è perché i miei ruoli erano meno importanti. Ma il fatto che non abbia vissuto sulla mia pelle questa discriminazione non significa che non riconosca quest’ingiustizia».
Carrierismo, competizione, ambizione ancora oggi non si sposano con l’immagine femminile.
«È così. Io non ho nessun problema a misurarmi con donne competitive e forti. E nessun uomo nella mia vita ha mai provato, né tantomeno dimostrato, alcun risentimento verso le donne che tentano di governare il mondo».
Tanti uomini, però, vivono di preconcetti.
«Non credo siano cattivi, ma limitati. Di solito, quando capiscono come la pensano, li evito. Forse perché sono proprio una di quelle donne che dicevamo prima, competitiva e ambiziosa. Voglio giustamente realizzare me stessa e faccio del mio meglio».
Come se la cava, invece, con la rivalità femminile?
«Ben venga un sano senso di competizione. Che male c’è se due attrici si impegnano al massimo per ottenere lo stesso ruolo in un film? Non è certo un caso da studiare. Io non odio le donne, ma mi preparo per lavorare meglio che posso. L’odio e l’antipatia non c’entrano niente. Sono parole che piacciono agli uomini per portare avanti maschilismo, sessimo e discriminazioni. Sono alibi».
Per lei che cosa non può mancare in una relazione con un uomo, oltre l’amore?
«Comprensione ed empatia. L’amore è molto bello, è quel sentimento incondizionato che affascina la maggior parte di noi, ma alla fine della giornata saltano fuori altri aspetti che non possiamo certo etichettare come amore. L’empatia serve per capirsi e accettare che siamo diversi anche nella gestione delle emozioni. È una capacità che va oltre l’amore: tutti noi ci aspettiamo da chi amiamo che ci capisca, che si immedesimi in noi».
Parlando d’amore, è l’unico momento dell’intervista a Freida Pinto in cui sento la sua voce ammorbidirsi, il tono diventare più leggero. È un attimo. E torna subito battagliera. Anche quando ci salutiamo. Senza dover troppo sorridere. Ma con grande complicità.
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