Colin Firth: Non sono solo Mr Darcy
Al cinema interpreta un editore nell’America di F. Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway, nel 2009 ha vinto un Oscar ma tutti lo riconoscono come Mr Darcy di Bridget Jones. Colin Firth racconta a Grazia come abbia voluto dare una svolta alla sua vita occupandosi di attività no-profit e diventando produttore di storie difficili. Perché, per non avere rimpianti, devi dare spazio alla parte più emotiva di te
Non ama le domande personali, e durante quest’intervista lo dirà più volte. Ma è molto meno rigido di quanto voglia far credere. «Faccio molta fatica a raccontarmi, è una questione di pudore, forse per colpa della “scuola” british che mi porto dietro da quando sono nato», ammette. L’attore inglese Colin Firth, premio Oscar nel 2009 per il film Il discorso del re, è al cinema con Genius, un viaggio nel mondo letterario dell’America degli scrittori F. Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e Thomas Wolf. Firth è William Maxwell Perkins, editore di Wolf, interpretato da Jude Law. «Quest’editore creò il successo di Wolf. Il suo talento fu scovare dei capolavori tra i copiosi manoscritti del giovane scrittore», spiega l’attore inglese, che attualmente vive in Italia, con la moglie Livia Giuggioli in una villa a Città della Pieve, vicino al lago Trasimeno.
Quali sono i suoi scrittori preferiti?
«C’è stato un periodo in cui amavo il russo Fyodor Dostoyevsky. In un altro il nigeriano Chinua Achebe, poi Fitzgerald. Se lo vuole sapere, non mi sono appassionato a Thomas Wolfe, il protagonista di Genius. Anche se Angelo è un libro meraviglioso».
C’è qualche autore più attuale che l’appassiona?
«Ci sono molti giovani che scrivono libri di alta qualità. Le ragazze di Emma Cline è di sicuro uno dei migliori libri che ho letto quest’anno. E pensare che lei ha solo 28 anni. L’anno scorso mi aveva entusiasmato Stazione Undici di Emily St. John Mandel».
Pensa che i giovani di oggi stiano perdendo interesse nei libri?
«Non so come sia il mercato letterario, ma credo che i libri continuino a essere prodotti in grandi quantità e molto velocemente. Si parla di morte del romanzo da decenni, ma non credo che sparirà. Penso che potrebbe cambiare il modo in cui le persone leggono, ma c’è ancora interesse per la lettura. Un editore che conosco mi ha detto che stiamo arrivando al punto di avere più scrittori che lettori, quindi esiste l’esigenza di scrivere. Non so dare una valutazione su chi sia il lettore medio e in che fascia di età si trovi, ma posso dire che io continuo a divorare libri, sia romanzi che saggi. E lo faccio con sincero piacere».
Da quando è diventato produttore di film legge di più per trovare storie?
«Sì, è vero. Sono alla ricerca continua di soggetti».
Che cosa cambia tra essere produttore ed essere attore?
«La questione principale, come produttore, è provare a sviluppare delle vicende che meritino di essere approfondite. Anche come attore cerco la varietà, di generi e di storie, ma sono un maschio bianco, inglese, di 55 anni. In futuro potrò ancora recitare nel ruolo dell’uomo inglese che invecchia, ma questo non mi dà la flessibilità che invece posso avere come produttore».
L’ultimo film che ha prodotto è Loving, storia di un matrimonio misto, lei nera e lui bianco, che fu un caso legale nell’America segregazionista degli Anni 50.
«È un fatto che mi ha colpito. Nancy Buirski è la regista che ha firmato il documentario sui coniugi Loving, e quando ci siamo conosciuti e me ne ha parlato, mi ha emozionato il messaggio potente. Come attore non avrei potuto avere un ruolo in questo film, come produttore invece ho avuto la possibilità di esserci, ma da un altro punto di vista».
Lei però rimane famoso nel mondo per essere il protagonista Mark Darcy nel film Bridget Jones. Che cosa l’ha convinta a girare il terzo episodio?
«Confesso di aver avuto dei dubbi all’inizio, i sequel spesso vengono spinti e richiesti dai produttori per fare cassa. In questo caso però il passaggio del tempo, 15 anni, sembrava rendere la storia più interessante. I personaggi sono in una fase diversa della vita, così come gli spettatori che si riconoscono nei protagonisti. Poi, alla storia originale, si è aggiunto anche il personaggio di Jack Qwant, interpretato da Patrick Dempsey, che ha dato freschezza e portato importanti cambiamenti. E così ho accettato».
Mark a un certo punto si accorge di aver dedicato gran parte della sua vita al lavoro: è successo anche a lei?
«Quando si è più giovani e magari all’inizio di una relazione, senza figli, si è pronti a giocarsi tutto. Solo con il passare degli anni ci si chiede se il prezzo di certe scelte sia stato troppo alto. Non si ha un futuro infinito e non si può cambiare ciò che è andato storto. Capita a tutti di riflettere. Io per fortuna ho fatto scelte diverse, ho tre figli e una moglie che amo. È stato interessante vedere Mark alla sua età, che poi è la mia vera età, mettere in dubbio la sua dedizione al lavoro e ammettere di non aver curato abbastanza la sua parte più irrazionale. Non sto dicendo che avere un figlio è l’ingrediente essenziale di una vita felice, ma la mancanza di emozioni può fare molti danni».
Bridget e Mark sono molto diversi eppure funzionano come coppia. È così anche tra lei e sua moglie?
«Io non sono proprio come Mark e Livia non è come Bridget. Le persone che sembrano avere caratteristiche incompatibili in coppia possono andare d’accordo. Non bisogna essere uguali, per essere una bella coppia.
Secondo lei le donne preferiscono gli uomini introversi o estroversi?
«Non mi chieda che cosa piace alle donne, non sono un esperto».
E a sua moglie che cosa piace?
«Beh, lei mi ha scelto. Non amo parlare di me, come già le ho detto. Ma non sono la stessa persona dei personaggi che interpreto al cinema. Livia viene da un paese mediterraneo e gli uomini lì sono diversi rispetto agli inglesi. Ammetto che quando sono in Italia, mi sento molto inglese. Ma a lei piaccio così».
Lei è coinvolto in molte attività benefiche e progetti di commercio equo e solidale con sua moglie. È difficile portare avanti queste iniziative?
«È davvero complicato. Non basta comprare un prodotto con l’etichetta “equo e solidale” per fare in modo che i produttori locali vengano aiutati. Le realtà ricche come l’Europa e l’America hanno tariffe doganali alte, così i Paesi in via di sviluppo non riescono a far entrare i loro prodotti. Per riuscirci dovrebbero abbassare le loro tariffe e accettare di ricevere prodotti scarsi che non vengono venduti altrove. Il sistema in un certo senso è falsato, per mantenere povere alcune nazioni. Non è una legge di natura, non è colpa di chi cerca di produrre beni. È un problema che riguarda i governi, è lì che contano le negoziazioni, gli incontri, i tentativi di far aprire il mercato. Ma ancora non si è raggiunto nulla di concreto. Penso che abbiamo costruito il sistema così e che sia completamente sbilanciato. C’è solo qualche tentativo per far tornare le cose più giuste, ma ancora siamo lontani dalla meta. Ci sono persone che provano ad aggirare la cosa facendo investimenti nei Paesi più bisognosi, ma non è ancora successo nulla a livello governativo, purtroppo. È complicato, ma i tentativi ci devono essere. E noi ci proviamo ogni giorno».
Da quando è sposato con sua moglie, come è cambiata la sua idea dell’Italia?
«È come con il matrimonio e la famiglia, sono tante le cose da dire. Amo ancora tutte gli aspetti di cui mi sono innamorato quando l’ho visitata come turista. Non c’è nessun Paese che possa competere per la cucina, l’architettura, la storia dell’arte, l’Opera, la moda. La lista di quel che l’Italia offre è infinita, è la mia seconda casa e io ormai non riesco più ad essere oggettivo nel parlarne».
I suoi figli parlano italiano?
«Sì, sia Luca che Matteo sono bilingui».
Come ha reagito quando in Inghilterra, il suo Paese, è stata votata la Brexit?
«È stato strano, ho sentito una sensazione di isolamento. Ero esterrefatto e inorridito. E prego perché qualcosa ancora succeda per fermare questo scempio».
Come britannico e quasi italiano, le piace il calcio. Che tipo di tifoso è?
«Si sa che ogni tanto urlo come un matto, ma solo quando sono allo stadio. Fa parte del gioco e non se ne può fare a meno. Tifo Arsenal, poi se sono all’estero e in tv vedo altre squadre che giocano, non resisto e seguo le partite. Ma non sono uno sfegatato, a meno che non sia l’Arsenal. E allora perdo il controllo».
Ha mai usato la celebrità per incontrare i calciatori? L’attore Viggo Mortensen ogni tanto gioca con loro.
«Negli anni mi è capitato di incontrare dei calciatori, ma non chiedo loro di giocare. Se segui una squadra è bello conoscere i campioni. Ma, forse per il mio carattere introverso, a me piace più essere sugli spalti».
Un’ultima curiosità: perché ha scelto Rain Dogs come nome per la sua casa di produzione?
«Sono un grande fan del musicista Tom Waits e le parole della sua canzone, Rain Dogs, mi hanno ispirato. Le ho già spiegato che non sono Mr Darcy».
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