Ana Girardot: «Una parigina sa che cosa vuole»
È uno dei personaggi chiave della serie tv di culto Les Revenants e una delle muse di Fendi. Grazia ha incontrato Ana Girardot, il nuovo volto del cinema francese che crede al destino e ha una sola regola: «Non accontentarsi mai»
Arriva al nostro appuntamento avvolta in un pesante cappotto, che la fa sembrare ancora più minuta. Ana Girardot, 27 anni, è uno dei volti del nuovo cinema francese ed è tra le interpreti della serie francese Les Revenants (la seconda stagione è ora in onda il martedì sera su Sky Atlantic). L’attrice fa parte della cerchia di artiste amate da Karl Lagerfeld, il direttore creativo del prêt-à-porter donna di Fendi, che l’ha voluta in prima fila alla sfilata di Milano.
Creato dal regista Fabrice Gobert e dallo scrittore Emmanuel Carrère, il serial Les Revenants è un caso: racconta degli abitanti di un piccolo paese delle montagne francesi, dominato da una diga. La loro vita viene sconvolta dal ritorno di alcuni dei loro cari morti anni prima, che riappaiono esattamente come erano, ignari di quello che è accaduto, del tempo che è passato. La serie è di quelle così innovative da lasciare il segno. Non ci sono mai scene truculente: niente sangue, nessuno zombie decomposto. Tutta la tensione (ed è tantissima) è psicologica, amplificata dal paesaggio, dalla recitazione eccellente e dalla musica del gruppo Mogwai, che fa da colonna sonora. Il tema, oltre al mistero, è il nostro rapporto con la perdita, con il bisogno di far pace con l’assenza di chi si ama. Les Revenants ha avuto un successo enorme anche negli Stati Uniti, dove ha vinto nel 2013 l’Emmy Award per il miglior serial drammatico. Carlton Cuse, il regista di Lost, ha deciso di farne il remake e Brad Pitt ne ha prodotto un riadattamento, Resurrection. Ana Girardot interpreta Lucy, una cameriera misteriosa come tutti i personaggi di Les Revenants.
Che cosa rappresenta per lei questa serie?
«In un certo senso, il potere del destino. Il mio ruolo è arrivato un po’ per caso: ero in tournée in giro per il mondo per presentare un film con Fabrice Gobert, il regista, che stava già lavorando alla serie e me ne parlava continuamente. Ne era entusiasta ed era dispiaciuto perché non c’era una parte per me. Gli dicevo: “Non ti preoccupare, Fabrice, avremo altre occasioni per lavorare insieme”. Quando siamo tornati a Parigi, dopo un po’ mi ha telefonato e mi ha detto: “Non ci crederai, ma c’è un piccolo ruolo nella prima puntata che sarebbe perfetto per te. Il personaggio dovrebbe sparire subito, ma se accetti la parte, la amplieremo”. Ovviamente ho risposto di sì e così è arrivata Lucy».
Nella seconda stagione il suo personaggio diventa ancora più importante.
«Sì, è la tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma non dirò niente di più: voglio che vediate tutte le puntate».
Lei è figlia di attori: quanto l’ha influenzata nella sua decisione di recitare?
«Fin da piccola sono stata sul set con i miei, era normale. I miei nonni sono entrambi pittori e con loro andavo alle mostre, mia zia realizza documentari, uno zio è fotografo. Sono cresciuta in un ambiente in cui l’arte è il pane quotidiano. I miei genitori mi facevano vedere moltissimi film, perché potessi farmi una cultura cinematografica. Ancora oggi cerco di vederne uno al giorno».
È vero che quando ha deciso di fare cinema suo padre non era contento?
«Non è esatto. Lui avrebbe voluto che mi dedicassi alle commedie, io volevo girare storie d’amore. A 18 anni mi sono trasferita a New York per studiare recitazione e, dopo due anni, sono tornata. Nel 2010 ho girato Simon Werner a disparu... diretto da Fabrice Gobert, lo stesso regista della serie televisiva Les Revenants. Il film è andato al Festival di Cannes e quando l’hanno proiettato, solo alla fine mi sono accorta che in sala c’era anche mio padre. Mi ha detto che ero stata brava, che la mia decisione di recitare era giusta».
Perché ha scelto New York?
«È stato a causa di tutti i film che avevo visto: sognavo da sempre di vivere nella Grande Mela. E desideravo capire se la recitazione fosse davvero la mia strada, lontana dai codici e dalle abitudini francesi. Volevo anche provare a vivere da sola, lontana dalla famiglia, dagli amici. Volevo mettermi alla prova. E New York è il posto perfetto se vuoi crescere. Lì ho incontrato una insegnante fantastica, si chiama Sheila Gray. Mi ha spinta ad andare sempre più lontano, a non accontentarmi mai. Mi ha insegnato il piacere di creare i personaggi, le situazioni, le sfumature dei caratteri. A New York ho capito che recitare era la mia vita».
Dall’altra parte del mondo, in una grande metropoli a 18 anni: non si è mai sentita sola?
«Lì ho fatto la mia prima lavatrice: a Parigi non mi era mai successo (scoppia a ridere, ndr). New York è una città che dà grande energia e molta fiducia ai giovani. Mi sono ambientata rapidamente, ho conosciuto un sacco di persone, molti fotografi, musicisti, appassionati di arte. Sono stati due anni splendidi: ho sempre voglia di tornare».
È stata a Milano per la sfilata di Fendi: che cos’è per lei la moda?
«Mi piace il senso dello stile, quello innato, che va al di là delle tendenze. Mi ispirano le donne eleganti, come mia nonna, per esempio: coordina i colori in maniera personale, aggiunge una spilla che le dà un tocco originale. Amo molto anche l’attrice e cantante Jane Birkin e i suoi look. Mi piace la moda che sottolinea la personalità. Nei film gli abiti hanno un ruolo fondamentale ed è per questo che sono contenta di assistere alle sfilate: mi sembra di partecipare a una rappresentazione teatrale che comincia e finisce in dieci minuti, ma che comunica tutta l’ispirazione del creatore. Se non avessi fatto l’attrice, avrei cercato di lavorare nella moda».
Facendo che cosa?
«La stilista: fin da piccola disegno abiti. Qualche volta lo faccio ancora. Ultimamente ho viaggiato spesso in Asia e lì è facile e rapido farsi confezionare un abito su misura proponendo il modello. Ho voglia di far realizzare lì vestiti che ho in testa da tanto tempo. Mi piacerebbe anche proporre ai costumisti qualche capo ideato da me per un prossimo film. Ma il sogno sarebbe ricreare il legame che c’era tra Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn: lo stilista disegnava gli abiti per i personaggi che l’attrice ha interpretato».
Come descriverebbe il suo stile?
«Non so se esiste una parola per definirlo: potrei dire semplice, sobrio, ma elegante, molto parigino. Quando vengo in Italia guardo le ragazze che indossano colori vivaci e paillettes anche la mattina, con i jeans: a Parigi ci limitiamo ai neri, i grigi, i beige».
Quali sono gli altri stilisti che ama?
«Yves Saint Laurent: anche lui creava rapporti profondi con le sue muse, che diventavano amiche. E poi c’è Karl Lagerfeld, un personaggio incredibile, che riesce a lavorare 24 ore al giorno: è un vulcano di idee».
Non è una domanda che si fa frequentemente, ma visto il tema di Les Revenants le chiedo: qual è il suo rapporto con la morte?
«Ho la fortuna di aver perso poche persone care, ma mi è successo. Ho l’impressione che restino con noi, come presenze benevole, che vegliano sul nostro destino. Ci pensi: anche solo tutte le cose che ci hanno detto in vita, tutti i consigli che ci hanno dato, creano un legame che continua, che va al di là del tempo. No, mi piace pensare che non ci lasciano, che non siamo mai soli».
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