Javier Bardem: «Io che ho dato un cuore al mostro»
Al cinema Javier Bardem rivela il lato seducente del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar. Sul set il divo spagnolo si è trovato di fronte sua moglie, l’attrice Penelope Cruz. E anche grazie a lei, racconta, è riuscito a scavare nell’anima di un cattivo
Lo vedo a un metro da me in piedi mentre addenta un succoso pezzo d’anguria. Indossa una camicia azzurra con i jeans e una giacca di pelle nera. Javier Bardem ha un’aria possente, ma non sembra farci caso.
Il suo è davvero un volto inusuale anche se quel naso, che si è rotto in una rissa da bar a 20 anni, mi sembra molto meno evidente di quanto risulti sullo schermo. Sono gli occhi, però, a colpirmi davvero, mobili e inquieti, di rado si posano sul suo interlocutore. Sono lo specchio attraverso il quale Bardem riesce a diventare qualsiasi uomo, il motivo per cui si è guadagnato il soprannome di camaleonte. Pochi attori sono capaci come lui di straordinarie trasformazioni emotive e fisiche.
Ha saputo essere poeta gay in Prima che sia notte, tetraplegico con aspirazioni suicide in Mare dentro, artista fra due donne in Vicky Cristina Barcelona, assassino surreale in Non è un paese per vecchi. «Sono uno che viene dalla strada e lo sarò sempre, è nel mio dna. Guardo, osservo, prendo quello che vedo e diventa parte di me», è solito dire.
Dal 19 aprile sarà al cinema in Escobar, il fascino del male, il film che ha presentato anche all’ultima Mostra di Venezia. Si tratta della storia vera del narcotrafficante e criminale colombiano, dall’ascesa, negli Anni 80, fino alla morte nel 1993. Ma la vicenda è raccontata da un inedito punto di vista: quello della giornalista e conduttrice televisiva Virginia Vallejo, amante di Escobar, con cui lui ha vissuto una passione travolgente e distruttiva durata quattro anni.
La donna è interpretata dalla diva Penélope Cruz, moglie di Bardem dal 2010 e madre dei suoi due figli, Leonardo, 7 anni, e Luna, 4. Per i due premi Oscar questo è il terzo film insieme (ma il primo da sposati), e l’8 maggio li ritroveremo ancora in coppia in Everybody Knows di Asghar Farhadi che darà il via al prossimo Festival di Cannes. Racconta il viaggio di Laura (Penélope Cruz) con la famiglia da Buenos Aires alla sua cittadina natale in Spagna, per una cerimonia. Un’esperienza che sconvolgerà la vita dei suoi protagonisti.
Lei è spesso alle prese con personaggi forti. Come definirebbe il carisma di un uomo?
«È qualcosa che sta più negli occhi di chi guarda, che nella persona osservata. Per esempio in Pablo Escobar non vedo nessun carisma, non mi innamorerei mai di lui, anche se qualcuno lo ha fatto».
Che cosa crede possa aver attratto la sua amante?
«Virginia voleva quell’uomo per quello che rappresentava così come Pablo stesso era attratto dall’oro, dalla ricchezza. Gli Anni 80 erano così, c’erano ambizioni diverse da quelle di oggi e alle persone semplici l’avidità fa questo scherzo. Ma al tempo Pablo aveva un suo stile. Ho dovuto ingrassare per interpretarlo. La cosa complicata è che abbiamo girato il film in 45 giorni e la scena della telefonata finale è stata fatta solo il terzo giorno, quindi non potevo essere già troppo robusto. La squadra di trucco e costumi è stata grandiosa».
Qual è la vera difficoltà nel trasformarsi in un personaggio simile?
«Quella di entrare nella mente di un uomo che ha cambiato la storia e seguirlo nel suo essere un padre amorevole, quando in realtà era un mostro. Non credo sia mai stato consapevole dell’orrore che incarnava, aveva una mancanza totale di empatia, altrimenti non avrebbe potuto uccidere così tanti uomini. Credo che fosse ossessionato dal timore di non essere rispettato e quell’ansia gli ha fatto compiere i gesti più atroci».
Non è pericoloso, in un certo senso, cercare di capire un mostro e percepirlo come un essere umano?
«È parte della nostra responsabilità di attori portare alla luce, mostrare anche il lato umano di un orrore. Se recito un cattivo in I pirati dei Caraibi , so di essere in una favola e mi diverto. Se sono Pablo Escobar, un personaggio vero, devo mostrare quello che lo avvicina a tutti noi, ma questo non significa renderlo attraente».
Tempo fa ha dichiarato che essere al centro dell’attenzione la fa sentire vulnerabile. È ancora così?
«Dipende dalla situazione, non mi piace mentre cammino per strada con i miei bambini, ma mentre parlo con lei sì. C’è un confine sottile, non facile da proteggere, ma so che stare fuori dalla mischia è importantissimo».
Lei era un giocatore di rugby.
«Di livello modesto, però».
Ma gli atleti hanno una specie di quiete, di distacco interiore, che serve parecchio anche a chi è famoso.
«Diciamo allora che a volte sono frustrato, altre mi diverto, altre ancora non mi importa di niente. All’ultima Mostra del cinema di Venezia ero interprete di due film, e per un attore è un regalo, ma quello che conta è non essere identificati con chi che si è sul grande schermo».
In Madre! di Darren Aronofsky interpretava un poeta in crisi, con una moglie che viveva nella sua ombra.
«In quel film l’egoismo dell’artista è molto presente. Credo sia una situazione reale: chiunque scriva un libro, componga una musica o faccia un film vive una forte insicurezza, ha paura di non sentirsi accettato. È un po’ come se dicesse : “Sono qui, guarda me e quello che faccio”. In ogni caso credo però che esistano due tipi di artisti: quelli che continuano a strillare per avere quell’attenzione, e quelli che quando ce l’hanno, e hanno anche il polso o i nervi per stare su un palco o davanti a una macchina da presa, fanno il loro lavoro».
Lei viene da una famiglia con un forte lato artistico, sua madre era attrice, suo nonno regista. Chi dei suoi genitori ha lasciato più il segno?
«Mia madre Pilar, di sicuro. Quando avevo un anno i miei si sono separati, lei ha tirato su me e i miei due fratelli più piccoli recitando. Era in tv la mattina, in teatro di sera. Certo, mi è mancata molto, non è stata a casa per anni, ma attraverso i suoi occhi ho imparato che cosa siano la disciplina e il sacrificio. Ho anche vissuto gli alti e bassi di questo mestiere, so che cosa vuol dire un telefono che non squilla mai e anche che cosa significa avere successo. E ho imparato a non dare peso a niente di tutto questo: l’unica cosa davvero importante è lavorare».
Che cosa ha invece imparato da un uomo d’affari come suo padre, anche se era sempre lontano?
«Da lui ho capito come devo comportarmi con i miei figli, quanto è importante la vicinanza fisica, baciarli, esserci per loro. Mio padre non c’è stato, per motivi vari, e il suo sguardo su di me mi è mancato molto».
Che effetto fa vivere in un film una storia d’amore con la persona che si ama anche nella vita reale?
«Pablo e Virginia hanno una relazione forte, è stato facile per me e Penélope, ma abbiamo dovuto stare attenti a non portarceli a casa. Ci sono stati giorni complicati, come quello in cui Virginia veniva in prigione a chiedere aiuto a Pablo: Penélope era stravolta, è arrivata a dirmi “Non ti voglio più vedere!”».
Tempo fa lei ha dichiarato di non essere sexy. Non ho nemmeno un’amica che le darebbe ragione.
«Ero molto giovane quando l’ho detto, adesso mi considero estremamente sexy».
Davvero?
«Ma no! Scherzo».
Sullo schermo si piace?
«Per carità, amo molto i miei personaggi, ma non vedere il mio naso o i miei occhi assurdi, e nemmeno sentire la mia voce: non li sopporto. Quando recito il mio personaggio è diverso. Succede qualcosa di più forte, che sento il bisogno di esprimere».
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